domenica, Luglio 06, 2025 Anno XXI


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Gli articoli sono gentile concessione di Paolo Leone: dai siti corrieredellospettacolo.netculturaeculture.it, e settimanale MIO 


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Ombre. Ectoplasmi di un mondo sommerso, personaggi perdenti che si aggirano nel retrobottega dell’esistenza, si palesano sinistramente dietro un vetro bagnato, linea di confine tra una sicurezza effimera, lo scalcinato negozio da rigattiere di Don, e “la giungla” lì fuori i cui suoni arrivano minacciosi come un rombo continuo e lontano sulla scena. Sono le anime inquiete disegnate da Mamet in American Buffalo, sul palco del Teatro Piccolo Eliseo dal 27 settembre al 23 ottobre 2016. Anime di chi è vinto dalla vita, di chi si aggrappa a qualunque cosa possa sembrare un barlume di riscatto, qualsiasi ne sia il costo. Un gratta e vinci dell’esistenza, inesorabilmente destinato al fallimento. Tutto questo è preso, trasportato e adattato dalla bella riscrittura di Maurizio de Giovanni, dalla periferia americana a quella italiana. Napoletana, per la precisione. Scelta assolutamente vincente e convincente. Le ombre non hanno denotazione geografica, sono le stesse in ogni angolo del mondo.

American Buffalo è uno spettacolo bellissimo, il testo conserva le sue caratteristiche, anzi, il lavoro visto in scena al Teatro Piccolo Eliseo ha il merito di elaborarlo senza tradirne l’essenza, ma arricchendolo di colori, sapori e sfumature. Merito sì dell’adattamento ma soprattutto di un trio di attori straordinario, sorprendente, e di una regia attenta, curata nei minimi particolari, che denota la presenza di idee, fatto non sempre scontato. Marco D’Amore si dimostra interprete entusiasmante di un personaggio non facile,‘O professore (Teach nell’originale) e ne esalta le corde ora drammatiche, ora brillanti, con una facilità che rende, quando è così, il teatro una vera goduria. Credibile e bravissimo lui, ma credibili e altrettanto bravi Tonino Taiuti nel ruolo di Don, il proprietario della bottega, e Vincenzo Nemolato, il “guaglione” (Bobby) tuttofare amico di quest’ultimo. Un’armonia in scena che incanta, avvince, e regala ai tre personaggi una loro tenerezza, pur nella drammaticità della situazione e nell’apologia della deriva, come l’ha definita lo stesso D’Amore, che è un grande risultato. Non una storia lontana ma attualissima e profondamente umana, con il calore, lo spessore e le emozioni che il teatro sa regalare quando è fatto bene.

La regia di American Buffalo, dello stesso Marco D’Amore, è la perla che impreziosisce ancor di più lo spettacolo, accompagna e sottolinea con maestrìa la condizione umana rappresentata, in un luogo centro di un universo parallelo, che paradossalmente potrebbe anche essere un’immagine onirica con i protagonisti – ombre che vi entrano e escono e in cui, a tratti, arriva solo l’eco delle loro voci, perse nel mondo reale, nella “giungla lì fuori”. Molto bella anche la scenografia di Carmine Guarino, le luci di Marco Ghidelli e il sound design di Raffaele Bassetti, che con i costumi di Laurianne Scimeni definiscono e completano l’omogeneità del tutto. American Buffalo, nella versione di D’Amore e de Giovanni è l’esempio di come, anche in un classico contemporaneo, le idee e il talento possano offrire qualcosa di nuovo, nuove prospettive, omaggiando intelligentemente un testo di un grande autore come Mamet senza rimanerne prigionieri. Da non perdere. E’ bellissimo uscire dal Teatro Piccolo Eliseo e ascoltare i commenti soddisfatti del pubblico che si appassiona alla storia appena vista. Accade raramente.

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©Bepi Caroli

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Gli articoli sono gentile concessione di Claudio Colaiacomo: dal libro Roma Perduta e Dimenticata  Compton Netwon Editori – segui Claudio su facebook o su twitter


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Roma deve moltissimo a Bartolomeo Pinelli perché, attraverso le sue incisioni, ha raccontato Roma d’inizio Ottocento ormai quasi del tutto sparita sia materialmente sia nei costumi e atteggiamenti del popolo. È una Roma dalla quale molto dello spirito romano moderno attinge le radici e in qualche modo riusciamo ancora a percepirne il retaggio. Pinelli nasce a Trastevere in via di San Gallicano dentro un palazzo che non esiste più, demolito per permettere il passaggio di viale Trastevere. Un busto e una lapide lo ricordano oggi presso il civico diciotto. È considerato “er pittore de Trastevere” non solo per il luogo di nascita ma anche perché i soggetti da lui preferiti erano i popolani, le loro tradizioni e mestieri che a Trastevere erano di casa. Tra le prime opere, una serie di trentasei acquerelli di “Scene e Costumi di Roma e del Lazio” che gli diedero grande popolarità in città. Negli anni a seguire dipingerà migliaia di scene popolari in tutta Italia pur legando la sua fama e notorietà all’Urbe. Bartolomeo era un uomo dal carattere piuttosto irascibile e stravagante, amava girare in città con una folta capigliatura, due grossi cani e un bastone che, all’occorrenza, usava per difendersi nelle zuffe in cui di tanto in tanto si cacciava. Giggi Zanazzo racconta un buffo aneddoto: Pinelli, infastidito dal violino del vicino che abitava al piano di sotto, si andò a lamentare, ma quello gli rispose che a casa sua faceva come gli pareva. Continua >>

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Con l’anteprima solidale (incasso devoluto alle popolazioni colpite dal terremoto) del 26 settembre prosegue il progetto dedicato al drammaturgo David Mamet a Roma, al Teatro Eliseo che, dopo China Doll nella passata stagione, con Eros Pagni, vede ora in scena “Americani” (fino al 30 ottobre) e “American Buffalo” (al Piccolo dal 27 settembre al 23 ottobre). “Amici veri. Amici generosi. Amici per la pelle. Degli altri”. Questo era uno degli slogan promozionali del film “Americani”, del 1992, tratto dal testo teatrale di David Mamet (Glengarry Glen Ross), vincitore del Premio Pulitzer nel 1984. Azzeccatissimo, perché quello che potremmo definire lo zoo di Mamet, nel recinto di un ufficio, ci mostra uomini vittime e carnefici di un sistema spietato, che l’autore seppe dipingere anticipando il disastro economico (e umano) che avrebbe squassato il mondo occidentale una ventina di anni dopo. Tutti contro tutti, disperati alla ricerca del galleggiamento in un mare che annega chi non sgomita, i piccoli, i deboli, chi vende poco e chi incautamente acquista. Quella che all’epoca fu una critica dura al sistema capitalistico, è ora uno spaccato di un recentissimo passato, profetico allora quanto disarmante oggi.

Sergio Rubini, protagonista e regista di “Americani”, ne trasporta in Italia il suo adattamento, senza tradire il testo, conferendogli una più immediata intelligibilità e avvalendosi di un cast di prestigio: Gianmarco Tognazzi, Francesco Montanari, Roberto Ciufoli, Giuseppe Manfridi, Gianluca Gobbi e Federico Perrotta. Ora, provate a leggere il testo di Mamet e vi renderete conto del compito arduo di metterlo in scena, di dargli vita. Una serie infinita di brevissimi botta e risposta e tante, tantissime pause, silenzi, in cui si annida il senso recondito della pièce, la sua più intima drammaticità. Più facile in un film, coi suoi primi piani, col suo montaggio, con le sue sequenze che possono valere un intero monologo. In teatro è tutto molto più difficile. La scena è fissa davanti agli spettatori e se gli attori non riescono a trasmettere il non detto…sono guai. Rubini – Tognazzi, Gobbi – Ciufoli, Montanari – Manfridi, sono le tre coppie (le prime due di colleghi, la terza composta dallo scaltro venditore Riccardo Roma e un ingenuo cliente) che nel primo atto, a turno, preparano il precipitare della situazione fino al beffardo, amaro, cinico e drammatico finale.

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Ogni personaggio è dipinto con dovizia di sfumature psicologiche dalla penna di Mamet e ottimamente restituito dagli interpreti. Dal disperato Sonnino (Rubini) al cinico Mariani (Tognazzi), dal senza scrupoli Roma (Montanari) all’impaurito Arnone (Ciufoli), dal truffaldino Mossa (Gobbi) al cliente Boni succube della moglie (Manfridi), fino allo sbrigativo ispettore Balducci interpretato da Perrotta. Il nodo dello spettacolo è nei dialoghi che avvengono nel primo atto. Nodo drammaturgico ma anche nodo che paradossalmente tiene a freno (con qualche momento di noia) ciò che nel secondo atto esploderà nella sua grottesca drammaticità. Nodo che attribuisce alla messa in scena l’andamento sincopato della scrittura di Mamet, con una differenza di ritmo, tra primo e secondo atto, abissale. Può piacere o no. A me non entusiasma, ma è un problema di gusti. Il testo è quello e sono convinto, per quanto possa valere il mio parere, che sia più bello da leggere che non da rappresentare, set cinematografico o teatro che sia. “Americani”, in scena al Teatro Eliseo, potrà sicuramente crescere nelle settimane seguenti, ma delinea molto bene la decadenza di un mondo che è andato in fumo proprio come le sigarette fumate in scena. Lo fa col linguaggio crudo del suo autore e con l’ironia dell’adattamento di Rubini.

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In un’intervista di qualche tempo fa per Cultura & Culture, Maurizio Casagrande ci e si chiedeva perché mai certi classici debbano rimanere ammuffiti in epoche lontane dalla nostra e se non fosse possibile scoprire dell’altro all’interno di queste drammaturgie, citando proprio Shakespeare come esempio di teatro popolare di secoli addietro. Con questo fortunato allestimento di Romeo e Giulietta, di nuovo in scena al Silvano Toti Globe Theatre in questa stagione fino al 2 ottobre, la mano fatata di Gigi Proietti (che ha letto il prologo), regista di un cast straordinario nell’armonia tra giovani e big della scena, fornisce alcune risposte significative. Alzi la mano chi non conosce la storia disgraziata dei due giovani amanti veronesi, tragedia shakespeariana tra le più note al mondo. Lo spettacolo in scena al Globe è l’esempio di come si possa essere leggeri con argomenti che potrebbero rendere pesantissime le tre ore di rappresentazione, se interpretate con la pomposità che ancora qualcuno si ostina a proporre quando si tratta delle opere del Bardo. L’idea di iniziare l’antica faida tra Montecchi e Capuleti con due street gang dei giorni nostri che danno vita ad una furiosa rissa, e con tutti gli altri personaggi in abiti contemporanei, ne sottolinea l’attualità, la distanza intergenerazionale, e a seguire i tanti istanti comici, ironici e satirici nella scrittura del 1596. Poi come per magia, lentamente, quasi senza accorgersene, la scena si tramuta nell’ambientazione originale.

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Romeo e Giulietta

La magia del teatro sì, ma anche il sogno, figlio “di un cervello che non sa pensare” dice Mercuzio, nipote del Principe di Verona e amico di Romeo. Potrebbe essere un sogno tutta la storia, chissà. E chissà se l’amore è il vero protagonista, o non piuttosto un personaggio apparentemente marginale come appunto Mercuzio, interpretato da un sontuoso Alessandro Averone, che ferito a morte da Tebaldo, cugino di Giulietta, augura la morte alle due famiglie e tramuta la commedia in tragedia. Un personaggio simpatico Mercuzio, guascone e lontano dai miasmi mortiferi dell’amore, intento a godersi la vita che altri gli tolgono per stupidi contrasti familiari. Se fosse lui il vero protagonista, l’occhio di Shakespeare su questa storia? Potremmo parlare ore dello spettacolo rivisto da Proietti, perché vivaddio suscita tante domande se non lo si osserva come una banale storia sentimentale. Sottotesti infiniti, che questa regia riesce a far emergere con l’ironia e quella leggerezza di calviniana accezione, che non è piuma ma volo alto di uccello. Il cast, dicevo, è sorprendente per l’amalgama tra giovanissimi attori come i due amanti, Matteo Vignati – Romeo – e Mimosa Campironi – Giulietta, tanta energia lui quanto deliziosamente e ironicamente delicata lei. Martino Duane, strepitoso, è Padre Capuleti, Gianluigi Fogacci, sempre un piacere vederlo all’opera, è Frate Lorenzo. Citare tutti sarebbe noioso (24 interpreti), ma una nota di merito va senz’altro a Francesca Ciocchetti, la balia di Giulietta, capace di essere convincente sia nei momenti divertenti che in quelli tragici, esaltando il pubblico nei saluti finali, e un’altra al giovane Guglielmo Poggi che da vita a Benvolio, cugino di Romeo, spigliato e drammatico al punto giusto.

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Insomma, Romeo e Giulietta in stile Proietti è piaciuto molto, pur sotto il nubifragio che si è abbattuto per quasi tutta la rappresentazione, costringendo alla fuga e al riparo i tanti ragazzi che affollavano il parterre, che non ha copertura. Per uno strano scherzo del meteo (ma sarà davvero un caso o un’altra magia?) la pioggia battente ha accompagnato il secondo atto che si conclude con un tuono artificiale, quanto mai armonico in questa serata da tardo autunno. Vince l’amore sull’odio in Romeo e Giulietta? Le famiglie fanno pace, è vero, ma diversi fiori sono stati strappati alla vita e quel che resta sono adulti che non hanno saputo accompagnare i giovani nei loro turbamenti. 1596 – 2016: non è tanto cambiata la situazione, basta guardarsi attorno. Questo spettacolo, tre ore che volano, lo sottolinea molto bene. Il teatro, quando è fatto da chi lo sa fare, non è mai noioso e suscita domande.

Per culturaeculture.it, Paolo Leone