giovedì, Maggio 02, 2024 Anno XXI


unnamedNella settimana dei ritorni al passato e dei futuri cancellati, dopo settimane di silenzio voluto per uscire dal calderone dei finti predicatori e dei mille italioti allenatori, mi arriva dritta al cuore una voce, emozionata, flebile e commossa. E’ la voce di Ruggiero Rizzitelli che, intervistato ai microfoni di Roma Channel, parla con voce commossa e rotta dal pianto, della Finale di Coppa Uefa 1990/91. Quella, manco a dirlo, persa in casa contro l’Inter per abusi arbitrali, pali, centimetri mancati di poco.

E’ una voce fuori dal coro, se presa nel panorama del calcio di oggi. Una voce sincera, spontanea, verace, ma sopratutto VERA. Il nostro ei fu numero 11, vede un’immagine di quegli anni e non riesce a trattenere le lacrime. Parla di una squadra non eccelsa, operaia, tosta. Una compagine di amici, che lui chiama famiglia, che giocavano al pallone con l’unico obiettivo di dare filo da torcere alle grandi potenze sportive ed economiche di quei tempi. Con scarso successo ovviamente, come vuole la storia della AS Roma, ma con un grande merito; aver lasciato un segno indelebile, incancellabile nei cuori di tutti i veri tifosi della Roma che hanno vissuto coscientemente quel periodo calcistico.

Sono passati 25 anni, mica un secolo. Ma sembra di parlare di un calcio alieno, di uno sport di un altro pianeta. Giocatori operai, attaccamento alla maglia, sudore, sangue e lacrime per una causa che non sia il VILE DIO DENARO. La gente se ne accorgeva. E apprezzava. Nonostante fosse anche un’altra Italia, di un altro momento economico e politico. Di sicuro cupo ma almeno più fiorente. Si stava meglio e forse si era tutti più frivoli, leggeri.

Oggi che ci resta? Ci resta poco o nulla. Ci resta uno stadio semi vuoto, esattamente come le nostre tasche. Ci restano i colori della maglia che amiamo, il sangue e l’oro porpora, dopo che c’hanno anche cambiato il simbolo. Ci resta la solita malinconica, romantica speranza che le cose possano andare bene, per una domenica. Ci resta la certezza che, a noi, quelli delle VECCHIE MANIERE, le cazzate non ce le potete raccontare, perché tanto non ce le berremo mai.

E ci resta infine uno spettacolo sportivo triste davanti agli occhi. Uno spettacolo fatto di svogliatezza, pigrizia, che io personalmente traduco con il concetto di IRRICONOSCENZA.
Perché se a 20/30 anni indossi la maglia che fu dei legionari romani e rappresenti sportivamente la più vecchia e gloriosa civiltà della terra, se giochi al centro di uno stadio che ti spinge(va), se guadagni quello che guadagna un operaio medio in 3 vite e non ci metti la TIGNA e il campo non te lo mangi…la cosa è molto semplice; NON SEI DEGNO. E non è degno nemmeno chi li ti ci ha messo. Perché non è stato in grado di capire che non te lo MERITAVI. Tutti, nessuno escluso. Iniziando dalla testa (perchè è proprio da li che il pesce puzza), finendo con l’ultimo degli inservienti. In questa ottica, il migliore e più sentito augurio di Buon Lavoro a Mister Spalletti.

Che poi, stringi stringi, il problema è semplice. Molto più semplice di quello che si pensa. E, ahimè, mi tocca dare ragione ai simpaticoni anti-pallonari radical chic. Gira troppa moneta e troppo facilmente.

Il resto, quello che rimane a noi poveri poveracci illusi e nostalgici, è il ricordo di un calcio che fu, fatto di valori più semplici e di SCONFITTE PIU’ BELLE DELLE VOSTRE VITTORIE DI OGGI.

Noi sappiamo perdere, ci siamo nati, siete voi che non sapete vincere.
Solo la maglia, è rimasta solo la maglia.

Ad maiora

Giacomo Serafini