Categorie Articoli by Gens Romana Scritto da Marforio domenica, 25 Gennaio alle ore 07:14
Michele era uscito di casa alle prime ore della mattina. Se l’era presa comoda e non aveva scelto, volutamente, il percorso più comodo e più breve. Anna, sua moglie, che quella domenica non lo avrebbe avuto a pranzo con i ragazzi e che, non volendo mangiare da sola, sarebbe andata dai suoi genitori, gli aveva messo su il broncio dal risveglio. Ma poi la preoccupazione aveva preso in lei il sopravvento sul malumore e l’aveva salutato con un bacio sussurrandogli quello «statt’accuort pe’ pazz…» che era la stessa raccomandazione che si tramandava nella sua famiglia da generazioni. Michele aveva fatto la sua prima sosta praticamente sotto casa, al Vomero, il bellissimo quartiere liberty di Napoli. Il caffè carico e molto zuccherato che gli aveva fatto Ciro, l’anziano barista che l’aveva visto crescere, accompagnato da una sfogliatella riccia appena sfornata, l’avevano, come al solito, fatto riconciliare con il mondo, anche se la giornata non era bellissima. Poi aveva trovato il modo di raggiungere Florenzano, a Montesanto, divergendo non poco dal percorso più breve per Piazzale Tecchio, e in quella sorta di Tempio del Colesterolo aveva fatto scorta di paste cresciute e si era assicurato quel pranzo che Giovanna, la sua dietologa, gli avrebbe fatto certamente scontare al loro prossimo incontro: una sontuosa pizza fritta con la ricotta ed il pepe nero. Visto che era ancora molto presto, aveva fatto un giro a piedi tra i vicoli della Napoli vecchia che lui amava tanto e nei quali aveva trascorso gran parte della propria infanzia e dell’adolescenza. Prima dai nonni, nell’austero appartamento di Via Toledo, poi all’Università. Si sentiva quasi in colpa con la sua città che, da buon napoletano, amava visceralmente, e quella mattina aveva lasciato che i ricordi, gli odori, i sentimenti, prendessero il sopravvento sulla sua solita razionale consapevolezza dei problemi che pure lui soffriva quotidianamente. Tornando a Montesanto aveva preso la Cumana e si era ritrovato, ancora con largo anticipo, a Fuorigrotta. Appena fuori dalla stazione, seppure a distanza ancora considerevole, aveva avvertito il fremito del San Paolo. Sorpassato dalle auto imbandierate e dai motorini, aveva fatto a piedi via Lepanto e raggiunto senza fretta lo Stadio. Una volta entrato Michele trovò il suo posto in Tribuna, nell’anello inferiore e si mise seduto. Attorno a lui sentiva una tensione fortissima. Con calma tirò fuori dalla carta oleata le paste cresciute e le assaporò lentamente, mettendo a tacere i borbottii dello stomaco, pulendosi alla bell’e meglio le dita unte di olio. Poi si concentrò sulla partita, infossato nel proprio giaccone, senza dare a vedere ai suoi vicini, che si agitavano in continuazione, di provare la minima emozione. Vide il gol di mano di Zalayeta e udì i fischi di disapprovazione quando Morganti, dopo un conciliabolo, lo annullò. Intuì che il gol di Mexes era seppur di poco in fuorigioco, se ne dispiacque, ma non lasciò trasparire alcuna reazione. E così fece al raddoppio di Juan. Nell’intervallo, mentre la gente attorno a lui urlava e recriminava, Michele si limitò ad addentare la pizza fritta divenuta ormai fredda, ma non partecipò alla discussione. Non poteva. Si sorprese di sé stesso, lui solitamente incapace di stare un minuto senza gesticolare. Non gli era mai successo di vedere una partita allo Stadio senza agitarsi, imprecare, urlare. Ma era il prezzo che Michele chiedeva a se stesso per essere lì. Anna sarebbe stata fiera di lui e le sue raccomandazioni, quello «statt’accuort pe’ pazz…» gli risuonarono nella mente fino al fischio finale dopo che Vucinic aveva messo al sicuro la vittoria della Roma, o reso irrecuperabile la sconfitta del Napoli. Michele uscì dallo Stadio che era già scuro e si diresse verso il mare a Mergellina senza dimenticarsi di avvisare Anna che era andato tutto bene. Gli restava ancora una cosa da fare, forse la più importante della giornata. Quando fu sul molo, sicuro che nessuno lo vedesse, tirò fuori la sciarpa da sotto il giaccone e si lasciò andare ad un’esultanza scomposta, agitandola verso il mare. Da solo. Era sicuro che i suoi fratelli avrebbero capito, pur non vedendolo. Avevano sbancato il San Paolo! E la Lazio, oltretutto, aveva perso, tornando al posto che le competeva. Non vedeva l’ora di tornare a casa e collegarsi al pc per condividere la sua gioia. Per una volta suo padre l’avrebbe perdonato di aver passato una domenica senza essere andato a trovarlo, e forse ne sarebbe stato sollevato. Per lui Michele, che aveva ignorato la prolungata educazione paterna al tifo partenopeo, era «core ‘ngrato», era il figlio maschio che non s’aspettava. Romanista tra i napoletani. Lupo tra i ciucci. Per anni si erano accalorati con discussioni lunghissime, sotto lo sguardo comprensivo di sua madre, ma poi avevano smesso e di calcio ora non parlavano più. Michele avrebbe dovuto sentirsi in colpa, ma non lo era. Lui aveva seguito solo il richiamo del sangue. E il sangue che scorreva nelle sue vene era sangue porpora e oro. Sangue di lupo. Così si diresse verso la Funicolare centrale per rientrare a casa, incurante dei pericoli che potevano recargli i simboli che ora, dopo tanta prudenza, indossava con una certa dose d’incoscienza. Era il suo momento. Nel caos di Via Caracciolo, tra i clacson perennemente urlanti, qualcuno lo sentì cantare «Grazie Roma», ma non ci fece caso. Napule è mille culure (*) Dedicata a Globuli Giallorossi e a tutti quelli che sono nati sotto il cielo di Napoli con un cuore da lupi e il sangue porpora e oro. Tag:marforio, Napoli-Roma |
