giovedì, Maggio 16, 2024 Anno XXI


Si narra, ma forse è solo una leggenda metropolitana, che in un derby di qualche anno fa il nostro Fila60, per manifestare tutto il suo romanismo ad uno dei tanti gagliardetti laziali, pare fosse tal Di Canio, abbia disceso gli spalti dell’Olimpico perdendo ad ogni passo un pezzo del suo vestiario, con il prode Afgano dietro di lui a raccoglierlo, fino ad arrivare praticamente a torso nudo a bordo campo. Ieri al minuto 89° di Roma-Cagliari Mirko Vu?ini? ha fatto il percorso contrario, presentandosi letteralmente in mutande sotto la Curva Sud per condividere con il Popolo SangueOro la propria esultanza per una rete di quelle che tennisticamente si sarebbero definite: gioco, partita e incontro. Non voglio interrogarmi sul significato sociologico del togliersi gli abiti in pubblico come forma di protesta anche perché ormai è un comportamento sin troppo abusato. Ormai si spogliano tutti: dai ricercatori universitari ai sostenitori del Ministro Gelmini e lo streaking che negli anni ’70 rappresentò un forte messaggio pacifista ora induce per lo più all’indifferenza o all’ilarità. Nel linguaggio popolare però l’arrivare nudi alla meta conserva il suo valore di essenzialità, di sacrificio e anche di tributo.
In fondo vestirsi, di un abito, di una maschera, di un atteggiamento esteriore, oltre che una necessità dettata dal clima e dalla buona educazione, è pur sempre un modo di celarsi, di presentarsi con una forma, anzi con “la forma”, che si è scelta o  alla quale si vuole aderire.
Quante volte, per protestare contro lo scarso attaccamento ai nostri colori, abbiamo detto: “tifiamo solo la maglia” e, per converso, non coloro che la indossano che spogliati di essa ci restano indifferenti ed estranei.
Il gesto di Mirko ha già fatto il giro del Mondo e resta l’icona della folle vittoria contro il Cagliari. Ma non solo.
E’ un modo per dire: eccomi a voi spogliato di tutto, ma sempre e comunque romanista.
E’ lo stesso linguaggio carnale e diretto della leggenda metropolitana che ha per protagonista il nostro Fila60.
Non credo che nel gesto di Mirko ci fosse premeditazione e sono propenso a pensare che sia stato un gesto sincero.
Strano e misterioso personaggio Mirko Vu?ini? come strani e misteriosi sono quelli del suo popolo, i Montenegrini.
Nelle nebbie dei miei racconti infantili il Montenegro è incarnato dalle imponenti fattezze della Regina Elena, Principessa del Montenegro. Donna forte, pratica, essenziale e decisa. Tutto il contrario di suo marito, quel Vittorio Emanuele III che il sarcasmo popolare definì Re Pippetto.
Mirko Vu?ini?, con quella sua aria ironica e indolente – uno che ieri, commentando la sua prestazione, ha ammesso di essere stato fischiato anche dal fratello in tribuna – è destinato a dividerci ancora. Incapaci come siamo di deciderci se il vero Mirko sia il Leone del Montenegro, leader e trascinatore della sua giovane nazionale, piuttosto che quel ciondolone che si aggira per il campo e sbaglia uno stop dietro l’altro o un gol già fatto, oppure il talento dalle giocate difficilissime e dai gol da antologia.
Nella sua infantile esultanza Mirko ha voluto forse protestare anche contro questa nostra indecisione. Ci ha detto: prendetemi come sono. Tifatemi come sono.
I segni sono fatti per essere colti ed interpretati.
E se la prima rete di ieri è stata l’ennesimo, sublime, gesto tecnico del Capitano per il quale non ci sono più aggettivi, le altre due: quella di Simone, capace di una prodezza di cui nessuno l’avrebbe accreditato, e quella di Mirko, sono segni di riscatto, sono la catarsi. Il suggello definitivo della fine della crisi della Roma che non è stata solo crisi di risultati, ma di cuore, di carattere, di voglia di vincere e di sacrificarsi.
Da ieri tutto è diverso. O forse tutto è tornato come prima.
Sappiamo che soffriremo ancora. Che forse soffriremo ancor più di prima, visto che questa squadra è strutturalmente incapace di vincere facilmente.
Ma lo faremo assieme. Noi sugli spalti e loro in campo.
Uniti dalla stessa passione e dalla stessa voglia di soffrire e di vincere per questi colori.
Quelli di cui non abbiamo bisogno di vestirci.
Perché li abbiamo cuciti sulla pelle.