giovedì, Maggio 02, 2024 Anno XXI


Lo chiamavano “Er Gatto” e a lui stava bene così. D’altra parte non è che Artemio tenesse poi così tanto al suo nome di battesimo ereditato dal nonno paterno, anche perché quel nome, causa di infinite liti tra i genitori, non l’aveva usato quasi mai. Per tutti era Claudio, come Claudio Baglioni, il nome che sua madre avrebbe voluto mettergli. Artemio gli era rimasto sui documenti, nelle rare occasioni in cui doveva mettere una firma, nell’appello a scuola tra lo sghignazzo dei compagni. La scuola, un’esperienza finita anzitempo con l’esame di terza media fatto da privatista. Due anni in uno. A lui la scuola, del resto, non piaceva. Preferiva di gran lunga accompagnare il padre in cantiere dove, volteggiando da un ponteggio all’altro, era diventato, appunto “Er Gatto”. Da grande avrebbe voluto fare il gruista, quello che, arrampicatosi fino in cima, poteva guardare il mondo dall’alto e starsene da solo, senza parlare. Perché Artemio del gatto non aveva solo l’agilità, ma anche la diffidenza e una certa parsimonia nel parlare ereditata da mamma. Cresciuto tra i ponteggi, Artemio non aveva paura del vuoto, o meglio quella paura aveva imparato a dominarla. Era stato suo padre a insegnargli come non farsi prendere dal panico il giorno in cui l’aveva portato fino sulla cima di un palazzo in costruzione, senza appigli, senza protezioni, spronandolo a restare ritto sulla tavola di legno. Non doveva guardare giù, doveva fidarsi dei suoi piedi, perché anche i piedi hanno gli occhi e sanno dove devono andare. Il suo carattere lo aveva allontanato dal padre e da un lavoro regolare perché lui non dava confidenza, ma non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Contando sulle sue doti di agilità viveva di piccoli lavoretti: un’antenna da sistemare, una grondaia da riparare, un filo da tendere, un tubo da sostituire. Senza andare troppo per il sottile. Lo chiamavano, lui faceva il lavoro, lo pagavano in contanti. Sapeva, Artemio, che quelle doti potevano fargli fare un sacco di soldi, ma se il padre lo avesse beccato con “quelli” a fare “certe cose” l’avrebbe ammazzato di botte. L’unica illegalità che si era concesso in passato era quella di scavalcare le recinzioni per entrare allo Stadio. Un balzo ed era dentro, silenzioso e veloce come un gatto. A godersi la sua Roma. Aggratis. Ma poi le nuove norme di sicurezza gli avevano tolto pure questo vizio. Il lavoro, però, era sempre di meno e sempre meno pagato. Allora usciva la mattina e si fermava al Bar dello Sport dove, tra un caffè, la lettura del giornale e una capatina alla slot machine passava la mattinata. Fu così che lo beccarono “quelli”. Un lavoretto facile facile. Doveva arrampicarsi su per la grondaia, entrare dalla finestra di un appartamento e aprire la porta dall’interno dando un segnale convenuto. Al resto, alla “ripulitura”, ci avrebbero pensato “loro”. Lui, vincendo le sue iniziali resistenze, aveva accettato. La sera prescelta era quella del derby. Poche macchine in giro, poca gente a spasso. Il proprietario dell’appartamento poi, la vittima, era un frequentatore dello Stadio e quindi la casa sarebbe stata certamente deserta. Lui aveva tentennato, anche perché al derby non avrebbe proprio voluto rinunciare, ma ormai si era impegnato e a “quelli” certi dietro front all’ultimo minuto non piacevano. Si vestì come in un film, con una bella tuta nera. Come in Ocean’s eleven. Certo non era bello come George Clooney, ma, come si dice, al buio tutti i gatti sono bigi. Prese un piccolo zainetto, nero pure quello, con pochi attrezzi da scasso sufficienti ad aprire la porta dall’interno e uscì. L’appartamento era in centro. Meglio. Lì le grondaie erano di ghisa e la facciata bugnata gli avrebbe offerto qualche appiglio in più per salire più velocemente. Con la sua esperienza non gli ci volle molto per capire dove arrampicarsi puntando dritto verso la finestrella del bagno, la meno protetta. Iniziò a salire e la scalata lo rilassò invece di agitarlo. Er Gatto sapeva er fatto suo. Senza sforzo apparente salì fino in cima e si concentrò, equilibrando il peso, sul passaggio più difficile: balzare dalla grondaia al minuscolo davanzale. Per fortuna la piccola finestra era aperta. Scivolò all’interno senza far rumore. Fu allora che vide il bagliore. Il bagliore di un televisore acceso e quasi svenne dalla paura: tornare da dove era venuto era impossibile. Nel buio cercò di orientarsi nell’appartamento per capire se c’era il modo di uscire dalla porta senza farsi vedere. Impiegò alcuni secondi per calmare i battiti del suo cuore e, lentamente, si incamminò lungo un corridoio. La porta aperta del salone gli consentì di vedere il televisore sintonizzato sulla partita e la tentazione fare capolino dalla porta e di sbirciare fu irresistibile. Proprio in quel momento un retropassaggio di Juan stava per far combinare un pasticcio a Doni. Ad Artemio sfuggì un’imprecazione, per sua fortuna coperta dal diluvio di insulti che proveniva dalla stanza. Avanzò solo di un passo, ma una voce lo raggelò. “Ei tu”. Era fatto. L’uomo neppure si alzò, si limitò a fissarlo negli occhi stando ancora seduto sul divano. Al collo portava una sciarpa giallorossa sopra un’altra sciarpa di lana, segno che un qualche malanno l’aveva trattenuto a casa. “O, dico a te. Che non ce l’hai la lingua?”. Artemio rimase ancora in silenzio, terreo. Avrebbe voluto fuggire, ma la paura lo pietrificava. “Che brutta faccia che c’hai. Nun sarai mica laziale?!” continuò l’uomo. Artemio avvampò scuotendo categoricamente il capo: laziale non glielo aveva mai detto nessuno! La sua reazione non sfuggì all’uomo che replicò. “Allora viè qua e mettete a sede, che a li biancozozzoni li sfonnamo”, disse accompagnando le parole con un gesto eloquente. “Co te se chiarimo dopo. Mo ce sta un derby da vince”. Artemio posò lo zainetto degli attrezzi, entrò e si mise a sedere accanto all’uomo allungando le gambe. Almeno il derby non se lo sarebbe perso.

Gratta, gratta, gratta amico mio
pure i ladri c’hanno un core
proprio come ce l’ho io
che nun parlo si nun vojo
perché in fonno c’ho l’orgoglio
che in quell’attimo me dà
un po’ de gioia pe’ campà…
Datte da fa’.