lunedì, Maggio 06, 2024 Anno XXI


La settimana che si è appena conclusa è stata, per la maggior parte dei romani, quelli che non appartengono alla ristretta cerchia dei privilegiati con autista-servitù-istitutrice pe li pupi, la classica settimana da incubo. Non bastassero gli acquazzoni a spazzare e allagare le strade, ci si è messa la protesta del mondo della scuola, che ha invaso la città con decine di cortei paralizzando tutto il paralizzabile. Nel frattempo la recessione assottiglia i risparmi, rende ogni giorno più complicato arrivare a fine mese per le famiglie e gli anziani e getta ombre inquietanti sul futuro dei giovani. Eppure anche in questa settimana, come in tutte le settimane dell’anno, i romani hanno stretto i denti, sono andati avanti, magari imprecando, ma non si sono certo lasciati abbattere, né prendere dallo sconforto o dal panico. Hanno fatto, come lo fanno 365 giorni l’anno nonostante le difficoltà, l’ignavia dei governanti, gl’insulti dei leghisti, il solito “miracolo romano” di far funzionare una città di milioni di romani e di altrettanti ospiti restando loro stessi, non perdendo il gusto per la battuta, l’ironia, il buon vivere.
Penso a queste cose all’indomani dell’ennesima resa incondizionata dei miliardari che indossano, ogni giorno che passa con minor merito e dignità, la Sacra Maglia dell’A.S. Roma.
Quelli che reagiscono (anzi, per la verità, non reagiscono) all’ennesima sconfitta invocando a loro giustificazione lo stress, la pressione psicologica, le difficoltà ambientali.
Imputando la loro crisi a quella “romanità addosso”, come la chiama il Direttore Sportivo, che invece di infondere loro la rabbia e l’orgoglio che ci fa andare in giro a testa alta, li deprime.
Vogliono impietosirci con i loro problemi quotidiani.
Come se loro non appartenessero alla schiera dei multimiliardari a cui la sorte ha regalato, per il dono di tirare quattro calci ad un pallone, l’esenzione dai veri problemi della vita che gli viene sontuosamente apparecchiata tutti i giorni con guanti bianchi e posate d’argento.
Cor core acceso de la passione, undici atleti Roma chiamò” dice la Canzone di Testaccio.
Ma dov’è il cuore, dov’è la passione, dove sono gli atleti di questa squadra?
La loro prima, e unica, preoccupazione alla sconfitta è quella di tenerci buoni.
Osannati, coccolati e vezzeggiati per anni, reagiscono con fastidio e quasi con stupore ai nostri timidi accenni di civile contestazione.
Con la scusa dell’unione e della compattezza, ci vogliono tenere calmi, forse timorosi che a qualche testa malata venga la malsana idea di sfasciargli le fuori serie e le capocce.
E non si accorgono neppure che presto finiremo anche di contestarli, perché ne siamo sempre più profondamente disgustati.
Perché mentre loro rispondono al coro “serie B, serie B” che proviene ormai dagli spalti di tutto lo stivale scuotendo appena il capo infastiditi, noi ce magnamo er fegheto.
Con la stessa leggerezza con cui staccano assegni a sei zeri e firmano contratti milionari, hanno assorbito la mentalità perdente.
Ormai accendendo la televisione per guardare la Roma so già cosa mi attende: dieci, venti, forse addirittura trenta minuti d’illusione e poi il primo gol avversario che trasforma il resto della partita in una lenta e inesorabile agonia.
Alla speranza che la squadra reagisca, si sta progressivamente sostituendo quella che al più presto questa squadra, questa dirigenza, questa guida tecnica sparisca.
Si tolga di dosso i nostri colori, che non rappresenta più.
Si spogli dei simboli che ci innamorano per i quali noi, a differenza loro, non smetteremo mai di combattere e che non ci stancheremo mai di onorare, nonostante loro.
Perché non sono solo il gioco, la condizione atletica, la grinta, il carattere quelli che sono andati perduti in questi mesi.
Che i giocatori, la società, il tecnico, hanno gettato via per i loro errori e la loro codardia.
Questa squadra ha smarrito la sua romanità.
Questa squadra ormai non ha più nulla di romanista.
Quello che per loro ormai conta poco o nulla.
E che per noi è tutto.