meno male che c’è la curva che canta. meno male perché la curva che canta la tristezza dal cuore me la fa scappare. glielo dico sempre al professore. quando lo incontro si intende e ultimamente è successo di rado. d’ora in poi succederà molto più spesso. d’ora in poi. sono tornato a roma, dopo tanto, tantissimo tempo. ieri sera l’ho incontrato. mi è sembrato che attraverso la sua figura ingobbita la città abbia voluto darmi il bentornato. d’altra parte il professore non è una persona normale. lui più che capire intuisce, più che sapere avverte. deve aver avvertito che tornavo. guarda un po’ che è stata la prima persona che ho incontrato uscendo dalla macchina. neanche ho scaricato la valigia che già ero a parlare con lui. “bentornato” mi ha detto. è stato come se quella parola l’avesse pronunciata ogni sasso di questa male
detta città. maledetta come ogni cosa che amo.
mi ha chiesto come andava. io ho riflettuto un po’. non so perché ma al professore non riesco a rispondere di getto. è come se ogni parola pesasse più di quanto non pesi in genere. tanto lui aspetta. aspetta sempre. ho fatto un sospiro e gli ho detto: ” …a professo’ chissà se valeva la pena…”. ecco come và. chissà se valeva la pena. sono stato fuori, lontano da casa mia per un tempo lungo, corto o lunghissimo non conta. conta che è stato un tempo sufficiente a rendermi estraneo dovunque mi trovi ora. l’ho fatto per il lavoro. nobile causa sostengono in molti. si legge, si sente, si respira che bisogna essere duttili, disponibili, cortesi e pronti a viaggiare dietro ad un servizio. schiavi un tempo si diceva. no forse schiavi no. è troppo, ma servi si. comunque l’ho fatto un po’ perché non potevo fare altrimenti e un po’ perché … ma si perché in fondo un po’ ti attira il lavoro con le sue lusinghe di superficie. peccato però che come dice bez io sono un pesce da fondale, dedito alla profondità più che alla superficie, anche se ogni tanto un giretto in superficie me lo faccio anch’io. ho devastato i ritmi che avevo inseguendo due lire di sogno. ora sono qui a contare quelle due lire. le conto, le riconto ma di sogni ne vedo ben pochi. mi sembrano piuttosto due lire di rabbia. chissà se valeva la pena fare la valigia e andare via, andare dove il lavoro ti chiama. al momento sono così confuso che non lo so proprio dire. e allora meno male che c’è la curva che canta. così al meno una volta a settimana, per due stramaledette ore la tristezza scappa via.
ieri la curva ha cantato tutto il tempo. era un po’ che non succedeva in verità. adesso va molto un coro molto carino. riprende la canzone di rita pavone. quella del ballo del mattone. al posto della “partita di pallone” c’è la “partita della roma”. è una vera festa, tutti che cantano e saltano e come fa allora la tristezza a rimanere incastrata nel cuore? non può e scappa via. forse si nasconde visto che il giorno dopo ritorna con la sua puntuale cattiveria. ma va bene lo stesso. anche se si nasconde soltanto. ieri dicevo la curva ha cantato tutto il tempo. come ai vecchi tempi. sullo zero a zero come sul quattro a zero. e già perché quattro a zero è finita. un massacro. una doppia soddisfazione. la vittoria e il naufragio di guidolin. per chi non lo sapesse guidolin è l’allenatore dell’udinese. è uno che ha preso una squadra che l’anno scorso giocava e divertiva, l’ha guardata e in tre mesi l’ha distrutta. lo sapete perché? perché è un teorico del niente. perché probabilmente sentendo la sud cantare una canzone di rita pavone si è chiesto se fossero matti. perché probabilmente è troppo intriso della mentalità produttiva che mette il risultato sopra tutto quanto. non che io non preferisca vincere, intendiamoci. però non me lo dimentico ch
e c’è anche un modo nelle cose, che c’è un gusto fine a se stesso nelle cose, per cui non sempre si agisce, ci si fa il culo in nome di un bene futuro bensì in nome di una soddisfazione effimera ed immediata. questo i tifosi del nord non lo so se lo capiranno mai. questo è uno dei misteri della sud. questo è il mistero del derby della capitale. nessuno continua a capirlo fuori. fatevi un giro a siena tre giorni prima del palio e forse capirete anche il derby della capitale. voglio dire che è qualcosa di più di una partita di calcio. molto di più per cui non bisogna guardare le altre partite per capire. bisogna guardare i grandi fenomeni di costume che caratterizzano le varie società. siamo dentro ad una storia che parte da molto lontano e molto lontano arriverà. anche se abbiamo un presidente che rispetto a quelli del nord è una macchietta. anche se andiamo fieri di successi che altrove sarebbero al contagocce. lo sono pure per noi. ma non è un problema. che i contradaioli della torre smettono di essere della torre perché la torre non vince da vent’anni? no. anzi. ci vuole sempre più amore. l’uomo è un animale opportunista dicono spesso lassù. col cazzo. i pesci di superficie sono animali opportunisti. quel
li di profondità, quelli di scoglio no.
chissà se valeva la pena di lasciare gli amici per tanto tempo, di prendere inculate ad ogni girata di spalle, di sudare così a lungo e così male. la cosa più pesante è stata quella di dover quasi sempre nuotare in superficie, e in superficie si fanno incontri di superficie, con persone di superficie. è piena di gente la superficie. piena di business la superficie. c’è molta luce. sicuramente molta di più che sul fondale. c’è baccano, lustrini, sogni e quant’altro ma è piena di reti. veramente piena di reti. per non finirci devi diventare anche un pesce cattivo. un pesce cinico. no basta. torno a roma.torno in profondità. faticherò il doppio a mangiare. in superficie è pieno, anche se molte sono esche. magari poi dovrò risalire. magari poi cambierò idea. infatti al professore non gli ho detto che non ne sia valsa la pena. gli ho detto “…chissà se ne valeva la pena.
..”. era una domanda. non so ancora quale sia la risposta giusta. chissà se valeva la pena di dire si troppe volte quando non solo bisognava dire di non, ma dirlo anche urlando. chissà se valeva la pena di accettare la vista di gente vuota pure per la superficie che ordina e urla in faccia a pesci di fondale. chissà se valeva la pena di frenare l’indole dello scoglio. chissà se valeva la pena di partire per poi tornare indietro con in più solamente due lire di dubbio. non lo so. nel frattempo meno male che c’è la curva che canta e la tristezza me la fa scappare. kammamuri
Roma, 31 Ottobre 1998, Stadio Olimpico
Roma-Udinese 4-0 Roma (4-3-3): Chimenti Sv, Aldair 6.5, Zago 6.5 (27′ St Candela Sv), Petruzzi 6, Wome 6.5, Tommasi 6.5, Di Biagio 6 (27′ St Alenitchev Sv), Di Francesco 7, Paulo Sergio 7 (43′ St Frau Sv), Delvecchio 6.5, Totti 7.5. (22 Campagnolo, 20 Dal Moro, 14 Gautieri, 9 Bartelt). All. Zeman 7. Udinese (3-4-3): Turci 6.5, Bertotto 5.5, Calori 5, Pierini 5, Navas 5 (1′ St Bachini 5), Giannichedda 5.5, Walem 6 (13′ St Appiah 6), Pineda 5.5, Poggi 5, Locatelli 5, Amoroso 4.5 (13′ St Sosa 5). (12 Wapenaar, 8 Gargo, 15 Zanchi, 21 Bisgaard). All. Guidolin 5 . Arbitro: Messina di Bergamo 6. Angoli: 12-5 Ammoniti: Pineda e Giannichedda per gioco scorretto, Navas per proteste Spettatori: 48.038, incasso 1.439.891.000 lire. I Gol: 45′ pt: azione insistita di Zago, un rimpallo di locatelli libera Di Francesco che trova l’angolino. 7′ st: rilancio lungo di chimenti, ai limiti dell’area svetta Delvecchio e libera Totti che al volo insacca con un gran tiro. 13′ st: Di Francesco apre a Wome che scende bene e crossa impeccabilmente per Paulo Sergio che triplica di testa. 26′ st: Pierini spinge Delvecchio in area, Totti trasforma il rigore con un forte tiro.
Nell’anticipo dominata l’Udinese: quattro reti e bel gioco dei giallorossi Roma, un ciclone
Grande Totti: gol da fantascienza, poi trasforma finalmente un rigore