venerdì, Maggio 17, 2024 Anno XXI


Ogni stagione ha la sua icona, un’immagine che ti resta nella mente e che non ti leverai mai più dalla testa. La mia immagine del 2006 è il girotondo della Coppa Italia. Nel 2007 sono i fuochi d’artificio della finale di Coppa Italia a Milano, con San Siro nerazzurro ammutolito. Lo scorso anno è il “daje Roma, daje” urlato da Daniele De Rossi in Roma-Genoa. L’icona di quest’anno è lo sguardo sconsolato e quasi lacrimoso di Luciano Spalletti all’espulsione di Mexes nella partita col Siena. Un’immagine che trasmette impotenza. Un’immagine che divide e non unisce come invece dovrebbe fare, secondo natura e umana comprensione, quella di un uomo sofferente.
La sconfitta parte anche da questo. Dalla rassegnata convinzione della sua ineluttabilità. Dal farci, più prosaicamente, il callo.
Quanta poca Roma c’è in quello sguardo e in quell’atteggiamento.
La Roma che conosco c’ha sempre er sole addosso e quanno esco ride, e me lo presta spesso” canta Marco Conidi.
La mia Roma non perde così. Non si fa scivolare la sconfitta addosso con un velo di tristezza.
La mia Roma se sbatte e s’incazza. Sempre. E poi magari perde uguale. Ma con orgoglio.
Non dice: “sono preoccupato”, dice: “me rode er culo”.
Non s’arrampica sugli specchi per far contenti gli intervistatori venuti ad accertarsi che il cadavere sia pronto per la sepoltura. S’azzitta, s’ingobba, impreca a bassa voce e sgobba.
C’è stato un momento, un attimo di eternità, in cui la mia Roma e quella di Luciano Spalletti hanno coinciso. Fu al termine di un’intervista televisiva a cui a Spalletti scappò un “siamo la Roma, cazzo!”. Poi più nulla.
Smarrito dietro i suoi sproloqui di “psicologia gestibile”, di “comportamenti corretti”, di “incapacità della squadra di prendersi dei vantaggi”, ripetuti come un disco rotto, il Mister ha perso progressivamente ai miei occhi la sua fresca romanità acquisita, per trasformarsi in un tetro ragioniere della sconfitta, della rinascita rinviata, col sottofondo del “domani è un altro giorno, si vedrà” di Rossella O’Hara e Ornella Vanoni.
Non vuol essere, il mio, un elogio della scurrilità, ma della carne, della sostanza, del sangue che scorre nelle vene.
Non ci vuole molto a capire, a pronosticare, che questa è, sarà, una stagione di sofferenza. Ne abbiamo vissute tante così.
Sono queste le stagioni in cui si traccia la riga del o di qua, o di là.
In cui si vedono i romanisti, in cui si diventa romanisti.
Sono le stagioni dell’orgoglio, dell’appartenenza, dell’amore per la maglia oltre il risultato.
La sgradevole sensazione che mi impasta la bocca e mi secca la gola come un vino cattivo è invece che questa squadra, questo allenatore, abbiano molte cose nella testa, ma la Roma per niente.
Che con la Roma e con Roma abbiano poco o nulla a che spartire.
Asserragliati nel loro fortino in cui la sconfitta è parte del mestiere, li sento lontani anni luce dalla mia Roma.
Quella che gira a testa alta e a muso duro.
Quella che non s’arrende.
Quella dei tremila a Siena sotto l’acqua e gli sfottò dei toscani.
Il verbo spallettiano è stato per tre anni quello di portare a Roma la “normalità”. Peccato non c’abbia avvisato che, nel suo credo, al quarto anno anche la sconfitta può diventare normale.
A questa Roma serve una zampata di lupo, un digrigno di denti, un ringhio da far accapponare la pelle agli avversari. Serve un po’ di sana follia e di anormalità.
A questa Roma serve la Roma.
Quella che domina dall’alto anche dopo una sconfitta.
Perché posso accettare di cadere, di farmi male.
Ma non di scivolare nel viscido piano inclinato di una mediocrità senza orgoglio e senza colore. Archiviando come niente fosse una stagione da buttare.
Ridatece la Roma. O ce toccherà veniccela a prenne.
Ricordando a lorsignori, col dovuto garbo e con licenza poetica, un concetto elementare e fondamentale: siamo la Roma, cazzo!