venerdì, Maggio 17, 2024 Anno XXI


05ATTILIO FERRARIS IV UN LEONE GIALLOROSSO AD HIGHBURY

Quando Francesco Totti guiderà i giallorossi sul terreno del mitico Arsenal Stadium di Highbury, sarà per lui e per tutti i romanisti come fare un passo nella leggenda. E, ci piace pensare, porterà nel cuore il ricordo e l’esempio di un altro mitico capitano oro e sangue che, ben prima di lui, si è cimentato nella brumosa Londra a guidare i suoi verso una missione impossibile. E il capitano di cui parliamo è Attilio Ferraris IV, il primo ad indossare la fascia sulla maglia giallorossa nella prima partita ufficiale della Roma giocata il 18 luglio 1927 contro la formazione dell’Ute Ujpest (indossare, si far per dire, perchè in realtà l’obbligo del segno distintivo del capitano di una squadra l’International Board lo introdurrà solo nel 1949).

Il 14 novembre 1934 la nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo, appena reduce dal titolo di campione del mondo conquistato a Roma nell’estate di quell’anno, si reca in quel di Londra per sfidare gli inglesi. I quali, allora, non si degnavano di partecipare alla Coppa Rimet, ritenendosi troppo superiori alle squadre del “”Continente””, perchè loro il calcio lo avevano inventato, esportato in tutto il mondo, ne erano maestri indiscussi. Accettarono soltanto una sorta di “”challenge round”” con la squadra che la coppa Rimet l’aveva vinta, sicuri di poterla umiliare sul campo.

Lo scenario che offre l’Arsenal Stadium è imponente, con una grande moltitudine di folla accorsa per l’avvenimento, introdotto da “”musiche di scozzesi che nei loro costumi caratteristici e variopinti e a gambe nude suonano canzonette popolari che gruppi di sportivi accompagnano a piena gola””, ci racconta l’inviato della Gazzetta dello Sport nella sua corrispondenza. Numerosi sono anche i nostri connazionali, riconoscibili da coccarde tricolori appuntate alle giacche. Il campo di gioco, nella più rigorosa tradizione inglese, è semplicemente perfetto. L’Inghilterra, nella quale fanno spicco le presenze di ben sette giocatori dell’Arsenal, schiera: Moss; Male, Hapgood; Britton, Barker, Copping; Matthews (sì, proprio il futuro baronetto, allora poco più che diciannovenne), Bowden, Drake, Bastin, Brook. L’allenatore è Cooch. Il Commissario unico Vittorio Pozzo schiera i campioni del mondo con: Ceresoli; Monzeglio, Allemandi; Ferraris IV (che è anche il capitano degli azzurri), Monti, Bertolini; Guaita, Serantoni, Meazza, Ferrari, Orsi. L’arbitro è lo svedese Olsson , i guardialinee sono Gibbs per l’Inghilterra e De Renzis per l’Italia.

Pronti, via e comincia subito male. Al 2′ è calcio di rigore per gli inglesi, tira Brook, Ceresoli para. Al 3′ l’ala inglese si riscatta e segna il primo gol. Al 4′ Luisito Monti, il nostro centrosostegno, in una mischia ha la peggio e si frattura un piede. Restiamo in dieci, allora non erano ammesse sostituzioni. Pozzo prova a rimediare spostando Ferrari nel ruolo di Monti, Meazza scala a centrocampo. Ma è “”Tillio”” Ferraris che si sdoppia nel ruolo di mediano e centrosostegno, che suona la carica ai suoi, che redarguisce Guaita, rimasto solo nel vivo della difesa dei marcantoni inglesi a mostrare le sue ben note lacune caratteriali. I bianchi d’Inghilterra, approfittando della superiorità numerica, imperversano nell’area di rigore azzurra e vanno altre due volte in gol con Brook al 10′ e Drake al 12′. Ceresoli fa quel che può, limita i danni, ma l’Italia sembra destinata a subire un’umiliante goleada. Il primo tempo finisce 3 a 0.

Nell’intervallo, il Commissario unico Pozzo cerca di spronare i suoi coi soliti racconti delle imprese degli alpini nelle battaglie dell’Isonzo durante la Grande Guerra, ma Ferraris IV e i suoi lo guardano male. Qualcuno racconta che fu “”Tillio”” a prendere in mano la situazione, ad introdurre il “”giuramento”” in uso nella sua Roma. Mano poggiata sul pallone a recitare: “”Dalla lotta chi desiste fa una fine molto triste, chi desiste dalla lotta è un gran fijo de na m…”” Quando tornano in campo gli azzurri appaiono trasformati. Non più intimoriti dal gioco maschio degli inglesi, rispondono colpo su colpo anche sul piano fisico (l’allenatore degli inglesi racconterà che, a fine partita, il suo spogliatoio sembrava un ospedale da campo), e si fanno avanti con foga, guidati dal loro capitano Ferraris IV che al 13′ svelle il pallone dai piedi di Bastin e lo consegna ad Orsi che centra. Meazza è in agguato e fa 3 a 1. Ed è sempre Ferraris IV che 4′ più tardi batte una punizione verso il centro, raccolta ancora da Meazza per il 3 a 2.

Gli inglesi sono ormai tutti in difesa, il portiere Moss si erge a protagonista assoluto. Cala un nebbione fitto su Higbury e giunge la fine della partita con l’Italia ancora alla ricerca del pareggio che però non arriverà. Gli inglesi sugli spalti sono tutti in piedi ad applaudire gli azzurri, vincitori morali di un match che passerà alla storia. Così come tutti gli azzurri passeranno alla storia con l’appellativo di Leoni di Highbury. Ed il più leone di tutti è stato il capitano, Attilio Ferraris IV.

Romano di Borgo Pio, Attilio Ferraris IV era nato il 26 marzo del 1904, cominciò a giocare al calcio nella Fortitudo, arrivando fino alla prima squadra e alla nazionale. Nel 1927 cominciò la sua straordinaria avventura nella Roma con la quale avrebbe giocato fino al 1934 e poi nella stagione 1938-’39. Per 217 volte fu il capitano dei giallorossi (solo Losi e Giannini hanno fatto meglio), anima e condottiero impavido ad incarnare lo spirito di quella Roma testaccina che creò il mito sangue e oro negli anni Trenta. “”Aristocratico e popolare””, lo definiremmo adesso, era anche un raffinato dandy, amante delle auto sportive, delle belle donne e delle scommesse (cavalli e cani gli costarono cifre ragguardevoli per l’epoca), era tanto furente nell’impegno in campo, quanto poco incline alla disciplina di squadra. Il richiamo di una sottana o di un motore di grossa cilindrata lo portava spesso a strafare, così nella primavera del 1934 il presidente Sacerdoti, di fronte all’ennesima “”disavventura”” disciplinare, lo estromise dalla rosa. Rimase senza giocare per mesi, a dedicarsi solo al suo bar in via Cola di Rienzo (locale che esiste ancora oggi) e fu lì che lo scovò mentre giocava al biliardo il Commissario unico Pozzo, fuori allenamento e infiacchito dalle trenta e passa sigarette fumate in un giorno.

Gli strappò la promessa di impegnarsi per rimettersi in forma, ne fece uno dei protagonisti del mondiale vinto dall’Italia nel 1934. Poi, l’8 maggio 1947, a 43 anni, il suo “”Cuor di Leone”” giallorosso lo tradì mentre cercava di gettarsi oltre l’ostacolo in una partita amatoriale fra Veterani e studenti universitari. E lo consegnò alla leggenda…