sabato, Maggio 18, 2024 Anno XXI


Quando frequentavo le scuole inferiori io i conti si facevano a mano. Le rare calcolatrici portatili, allora andavano in voga quelle della Texas Instruments, erano proibite sui banchi di scuola. Si diceva, a ragione, che a fare i conti “con la macchinetta” il cervello perdesse di elasticità. E al mercato, dove al posto delle bilance elettroniche di oggi si usavano le stadere di ottone, i commercianti facevano di conto con il lapis direttamente sulla busta della frutta, della verdura o del pane. Se il calcolo era più complicato lo si verificava con la “prova del nove” che ora, in sincerità, non saprei neppure rifare. Quello che mi ricordo è che si disegnava una croce riempiendone gli spazi con i risultati di operazioni aritmetiche più semplici fatte sui medesimi numeri da controllare e poi si verificava il risultato. La prova del nove non tradiva mai e consentiva  a noi scolari di consegnare il  compito di matematica con il cuore più leggero e ai commercianti di dimostrare alle massaie che il conto era giusto.
Non so se Guglielmo, il piccolo ultrà giallorosso che frequenta la scuola svizzera ed al quale mi rivolgo ancora dopo avergli raccontato la prima Coppa Italia della gestione Spalletti, usi ancora questo piccolo meccanismo di controllo. Se non lo fa è un peccato, perché intere generazioni di scolari hanno fatto amicizia con i numeri grazie alla “prova del nove” convincendosi che la matematica è una scienza esatta e che i numeri non mentono mai.
La Roma della calda serata del 24 maggio 2008 cercava tra le mura amiche  la sua personalissima prova del nove per dimostrare, numeri alla mano, di essere la squadra più forte.
Più forte degli infortuni che ne hanno ostacolato la cavalcata verso quello che sarebbe stato il suo quarto scudetto. Più forte degli “aiutini” che hanno sostenuto la sua avversaria proprio quando stava per vacillare. Più forte dell’abissale differenza economica tra le due società. La stessa differenza che consente all’Inter di lasciare in panchina fior di campioni mentre noi facciamo i conti con le assenze e il tetto degli ingaggi.
L’Inter si è presentata alla sfida con lo scudetto appena rimesso a nuovo e con la maglia bianca con una croce in mezzo, quasi a sfidare i nostri a computare su quella croce la prova del nove.
A lungo ho temuto, mio piccolo amico, che sotto i nostri occhi si ripetessero le mille ingiustizie della nostra sfida infinita con l’Ambrosiana, ma non è accaduto. Forse per l’autorevole presenza in Tribuna d’Onore del Presidente della Repubblica. Forse perché stavolta tutta l’Italia, anche quella ostile a Roma e alla Roma per partito preso, avrebbe visto. O forse perché loro erano talmente sicuri di sé da pensare che ci sarebbero stati superiori con i loro mezzi. Che ci avrebbero scavalcato d’un balzo, senza ricorrere alle amichevoli stampelle che ne hanno agevolato il cammino per tutto l’anno.
Non sto a raccontarti la partita, mio giovanissimo ultrà, perché sono sicuro che hai ancora gli occhi colmi delle sue immagini. Le mie, quelle che mi porterò per sempre nel cuore, sono particolarissime. E’ il gol di Philippe, il rugantino d’oltralpe capace di commuoversi per la maglia porpora e oro come se fosse nato a Trastevere o a Ponte Mammolo. E’ lo sguardo preoccupato della nostra A.D., che per una volta possiamo chiamare familiarmente Rosella, per l’infortunio del francesino e l’esultanza della stessa Rosella al fischio finale. E’ la sfacciataggine di Vucinic che fa quello che ognuno di noi avrebbe voluto fare: prendere la macchinetta elettrica dei soccorsi, metterla in moto, caricarci su i suoi amici e la Coppa Italia e farci a tutta velocità un giro di campo dando finalmente senso all’inutile pista di atletica. E’ una maglia celebrativa con la data e un numero: il 9. Nove come le Coppe Italia vinte dalla Roma, nove come la prova del nove.
Perché se sottrai alle due squadre la loro dote di buona e mala sorte. Se gli levi un paio di campioni a testa, e noi sappiamo cosa vuol dire lasciare in tribuna il Capitano e don Rodrigo. Se aggiungi la rabbia e togli la paura, il risultato è quello di una bellissima serata di fine maggio.
Perché se alla Roma togli tutto gli resta la nostra infinita passione. Se all’Inter togli quello che generosamente gli regalano resta solo la frustrazione di uno scudetto vinto senza merito che non è stata capace di onorare e di festeggiare.
E ora, caro Guglielmo, ci resta ancora una prova del nove.
Si dice che presto la Roma passerà di mano e che verrà consegnata ad un magnate americano. Se mai ciò dovesse accadere vuol dire che il 24 maggio si è conclusa un’epoca, si è completata l’epopea del Presidente Franco Sensi e della Roma come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.
Se ne aprirà un’altra. Quella della tua generazione, capace di mischiare il romanesco alle mille lingue della finanza internazionale. E allora sarai tu a farmi da guida, perché io, di lingua, conosco a stento solo l’italiano.
A questa nuova avventura la Roma si presenta con i conti a posto con la sua Storia. Perché ha superato la prova del nove.
A chi prenderà il testimone il compito di farla crescere conservando l’unica cosa che i numeri non possono descrivere.
Il cuore.