giovedì, Maggio 16, 2024 Anno XXI


C’era rimasto male da bambino Leandro quando gli avevano detto che il cuore, in fondo, è solo una pompa. La triste rivelazione gliel’aveva fatta il suo maestro delle elementari scuotendo il capo di fronte alla letterina di Natale che lui, come si usava allora, aveva redatto con bella grafia decorandola con una serie di ghirigori. Un lettera un po’ melensa, forse, ma del resto, a quell’età in cui si iniziano a gestire i propri sentimenti, non si è tutti ondivaghi tra la sfrontatezza e la sdolcinatezza? Da allora trovava un certo imbarazzo nell’associare la parola “cuore” a quello che provava nel suo intimo ma, pur riconoscendone il valore puramente metaforico, continuava a pensare di sé di essere molto più cuore che cervello, pronto ad avvampare ad ogni occasione. Di pari passo era sorta poi in lui un’istintiva diffidenza verso le persone fredde che riescono a mantenersi calme in qualsiasi situazione e per lui il più offensivo degli insulti era definire qualcuno senza cuore. Al suo muscolo cardiaco Leandro stava attento, pur non essendo un salutista nel vero senso della parola. Aveva smesso da anni di fumare, seguiva una dieta quanto più possibile equilibrata e, appena poteva, faceva lunghe passeggiate a piedi, il massimo dello sport che si poteva concedere col suo stile di vita. Di salute, peraltro, non parlava mai, attento a non farsi coinvolgere da sua moglie Giovanna,   decisamente ipocondriaca. Giovanna  pronta a trasformarsi in una sorta di enciclopedia medica ambulante ed a cogliere ogni minimo sintomo per trasformarlo in un segnale allarmante che la portava dritta dritta dal medico dal quale, tuttavia, usciva regolarmente delusa e a mani vuote perché Attilio, il vecchio medico di famiglia, non era tipo da darle retta riempiendola di farmaci inutili. Da qualche settimana, però, Leandro dormiva male. Si svegliava nel cuore della notte in preda alla tachicardia e si alzava silenziosamente, attento a non svegliare la moglie per evitare una discussione che, ne era certo, si sarebbe trasformata nella diagnosi di chissà quale male oscuro. Poi, ad un certo punto, aveva iniziato a parlare nel sonno, formulando frasi senza senso e quest’ultimo segnale aveva rivelato a Giovanna il suo disagio. Così una bella mattina Giovanna aveva sostituito la solita tazza di caffè con la quale amorevolmente lo risvegliava con una imbevibile tisana replicando alla sorpresa di Leandro con un perentorio: “questa storia non mi piace per niente, devi farti vedere da un medico!”. Leandro si era sorbito senza fiatare la tisana, tanto il caffè l’avrebbe preso qualche ora dopo al Bar. Solo per curiosità, non l’avesse mai fatto, aveva cercato su Google il possibile significato dei suoi turbamenti notturni trovandoli corrispondenti ai sintomi degli “attacchi di panico”. C’era di che preoccuparsi, ma un po’ per testardaggine, un po’ per pigrizia, Leandro non aveva seguito il consiglio di Giovanna e fu quindi assai sorpreso quando, rispondendo al telefonino dal lavoro, sentì la voce di Attilio. Evidentemente Giovanna l’aveva allarmato a sufficienza. Il vecchio medico, ormai prossimo alla pensione, conosceva Leandro dall’infanzia e non aveva faticato a convincerlo ad andarlo a trovare, “solo per una chiacchierata” aveva aggiunto Attilio. Così Leandro, senza dir nulla a Giovanna, aveva fissato l’appuntamento all’ora di pranzo raggiungendo il piccolo studio medico nel quale Attilio riceveva ormai solo pochissimi pazienti. Attilio l’aveva salutato cordialmente, gli aveva chiesto notizie dei suoi e poi aveva iniziato la visita con l’accuratezza che Leandro riteneva appannaggio solo dei medici più anziani. Al termine degli esami Attilio aveva scosso il capo non sapendo se essere più contento perché tutti i valori erano normali, o più preoccupato per non aver trovato riscontro ai sintomi che lo stesso Leandro gli aveva confermato. Dal vecchio archivio aveva tirato fuori la cartella clinica di Leandro ed aveva iniziato a rileggerla ripetendo a Leandro tutta una serie di domande di routine, dal fumo, a qualche strappo alla dieta, all’alcool, spingendosi sino a domandare a Leandro se avesse un’amante, ma ricevendo solo risposte negative. Gli aveva chiesto infine se Leandro avesse particolari pressioni sul lavoro e all’ennesimo diniego si era risolto a prescrivergli un blando calmante, solo per tenere tranquilla Giovanna. Stava per congedarlo quando si trattenne ancora qualche istante con lui sulla porta con l’espressione di chi ha intuito la causa di un problema. “Leandro”, gli chiese a bruciapelo, “tieni ancora alla Roma?”. Leandro percepì questa domanda come un’offesa personale, risentendosi profondamente. Ricordava ancora quando, ragazzino, andava all’Olimpico con il padre e con Attilio. La risposta di Leandro fu quella di chi trova in sé parole antiche, le stesse che aveva pronunciato al vecchio medico da ragazzo ogni volta che lui, incontrandolo, si rassicurava che la vita non lo avesse corrotto chiedendogli: “sei ancora della Roma?”. “Certo che tengo ancora alla Roma! Ci mancherebbe! Non mi perdo una partita. E poi una Roma così, che ci mette il cuore, che ti fa tremare sino alla fine, sarebbe da pazzi non seguirla. Certo che ogni volta è una sofferenza…” Attilio non gli diede il tempo di finire la frase, appallottolò la ricetta, gli diede una pacca sulla spalla e si limitò a dargli appuntamento al 22 maggio. Allo sguardo interrogativo di Leandro, Attilio replicò salutandolo con una frase che Leandro comprese solo qualche minuto dopo, ripensandoci in automobile: “dobbiamo aspettare il corso degli eventi. Solo allora, entrambi, sapremo”.

Io
l’onda che si alzò
su dal mare scuro
dell’umanità
l’urlo che si udì
quando rimbalzò
forte sul tamburo
della libertà
sogno di colei
che è la mia follia
e mai questa ferita
rimargina
che dai libri miei
ha strappato via
l’ultima pagina
Io resto qua
nell’irrealtà
dell’immenso velo
del mio cielo a metà
sarà una nuova età
o solo un’altra età
il volo di un eterno istante
nel mio cuore di aliante