lunedì, Maggio 05, 2025 Anno XXI


Gli amici li avevano soprannominati, non senza una punta di malizia, la bella e la bestia, e a vederli insieme non si faceva alcuna fatica a comprenderne il motivo. Occhi azzurri, capelli neri, un fisico da modella, o meglio da pin-up viste le forme generose, Monia incarnava, nello splendore dei suoi 22 anni, il prototipo della bella ragazza romana. Commessa in un negozio alla moda di Via della Croce, sempre in tiro, sempre curatissima, se fosse nata negli anni ’50 avrebbe trovato posto agevolmente tra quei “poveri, ma belli” portati sullo schermo da Renato Salvatori, Maurizio Arena, Marisa Allasio e Lorella De Luca. Augusto, invece, a dispetto del suo nome imperiale, non aveva nulla di regale. Imponente, senza dubbio, col suo metro e novanta per un peso forma che rasentava il quintale, ma non certo bello. Il cranio rasato per far piazza pulita di una precoce calvizie, il naso rotto da un’infelice esperienza di boxeur quando credeva che i suoi muscoli avrebbero potuto aiutarlo ad emergere, era l’esatto opposto di Monia. Montatore di una ditta di mobili, aveva conosciuto Monia nel corso di una ristrutturazione del negozio in cui lavorava lei e, strano a dirsi, non era stato lui a corteggiare lei, ma il contrario. Lui era troppo timido e impacciato per farlo e proprio la sua timidezza, che gli aveva impedito di farsi valere come pugile, troppo fregnone dicevano in palestra, era ciò che aveva attratto Monia, infastidita dai tanti pappagalli che le ronzavano intorno. Come spesso accade alle coppie che all’apparenza sembrano non avere nulla in comune, i due filavano d’amore e d’accordo da un paio d’anni, senza alcuna increspatura. E poi non era del tutto vero che non avessero proprio nulla in comune, perché entrambi tifavano la Magica con una passione che rasentava il fanatismo. Eh già, perché Monia quando entrava nel Tempio si trasformava in una tigre, mentre ad Augusto per farsi notare non serviva la voce: il suo aspetto bastava e avanzava. Da quando si erano messi insieme avevano lasciato la Curva Sud per trasferirsi  nella curva opposta. Lì, dove nessuno li conosceva, potevano vivere le loro emozioni senza temere che Monia fosse presa in giro dai suoi vecchi compagni di curva costringendo, di converso, Augusto a far valere la sua stazza. In tribuna non erano mai stati perché, senza tanti giri di parole, non potevano permetterselo, però allo Stadio non mancavano mai. Così quando il sabato prima di Pasqua gli addetti alla sicurezza, complice la scarsa affluenza, li avevano dirottati dai loro soliti posti alla Tribuna Tevere si erano trovati entrambi intimiditi, quasi fossero due imbucati. Mano nella mano avevano passato tutto il pre-partita ad esplorare il settore fino a trovare due posti liberi proprio nella parte centrale, quella più costosa. Nel farlo si erano scattati a vicenda coi telefonini, e si erano fatti scattare dal primo che passava, un’infinità di foto, manco fossero due turisti giapponesi. La giornata non era bella, la pioggia battente non dava pace, ma a loro non importava perché si apprestarono a vivere quella partita come un regalo insperato, come un giorno di festa. La Roma del primo tempo, però, non era certo in sintonia con le loro aspettative. Sembrava confusa e imballata, ancora preda dei fantasmi del derby perso appena tre giorni prima e dalla curva iniziò a levarsi qualche fischio, azzittito con poca convinzione dal vantaggio raggiunto verso la fine del primo tempo. Nell’intervallo Monia si alzò in piedi attirando l’attenzione di quei pochi che ancora non l’avevano notata, mentre Augusto rimase immobile al suo posto, stretto nel giaccone. In cuor suo temeva che la loro improvvisata trasmigrazione dai loro soliti posti stesse portando male. Quasi a voler dar corpo ai timori di Augusto, l’Empoli trovò il pareggio nei primi minuti del secondo tempo tagliando come il burro tutto il centrocampo giallorosso davanti agli occhi attoniti di Monia ed Augusto che rimpiansero di dover osservare l’azione così da vicino. Qualche minuto dopo, con l’espulsione di Perrotta, la Roma sembrò sul punto di capitolare, ma sugli spalti accadde l’imponderabile. Un impressionante ruggito di leone ferito si levò da tutti i settori senza distinzione e, manco a dirlo, Monia guidava la contestazione del loro spicchio di tribuna, dimentica di non essere in curva. Alzatosi d’istinto accanto a lei, Augusto si unì ai fischi e alle urla e se l’arbitro Gava gli fosse stato un  po’ più vicino forse avrebbe cambiato la sua decisione. Qualcosa scattò evidentemente anche nella squadra che, seppure in inferiorità numerica, trovò il vantaggio e seppe conservarlo, con grinta e determinazione, fino al fischio finale accolto dallo Stadio intero con un’ovazione tanto simile ad un grido di liberazione. Augusto si rimise seduto e, come spesso gli accadeva, si ritrovò Monia accoccolata sulle ginocchia. Monia iniziò a tempestare Augusto di piccoli pugni di esultanza e non smetteva di ripetere che se tutto fosse andato come doveva andare quella sera sarebbero stati a quattro punti dalla vetta e poi chissà… Non fece in tempo a finire la frase perché Augusto la zittì con uno sconsolato: “see, ancora credi alle favole…”. Monia lo guardò e grattandogli la pelata gli rispose maliziosamente: “certo che credo alle favole, in fondo noi due non siamo come quelli della favola della bella e della bestia?”. Augusto, a cui quella storiella della bella e della bestia proprio non andava giù, l’abbracciò con trasporto. Qualcuno, vedendo il gesto, avrebbe potuto pensare che volesse soffocarla.

C’è una bestia che
s’addormenterà
ogni volta che
bella come sei
le sorriderai.
Quel che non si può
neanche immaginare
è una realtà
che succede già
e spaventa un po’.
Ti sorprenderà
come il sole ad est
quando sale su
e spalanca il blu
nell’immensità.
Stessa melodia
un’altra armonia
semplice magia
che ti cambierà
ti riscalderà.
Quando sembra che
non succeda più
ti riporta via
come la marea
la felicità.
Ti riporta via
come la marea
la felicità.