Categorie Articoli by Gens Romana Scritto da Marforio sabato, 8 Marzo alle ore 07:58
Emma. Anzi la signorina Emma. Avrebbe avuto, come tutti, anche un cognome da aggiungere. Ma non le sarebbe servito granché. Lei era la signorina Emma. Da quanto, non lo ricordava più. O forse non voleva ricordare. Era stata una bella ragazza Emma, anzi, una bella ciumachella. Come quella cantata da Lando Fiorini sulle note di Trovajoli. Solo che lo era stata nel tempo sbagliato, in un tempo in cui “la mejo gioventù” bruciava come paglia nel camino. Erano i tempi dell’occupazione tedesca di Roma e lei aveva solo quindici anni, un cuore grosso così e un amore. Un amore giovane, aitante, bello come il sole. E partigiano. Quello stesso amore che i tedeschi le avevano portato via durante un rastrellamento. Così era diventata anche lei staffetta partigiana, di nascosto da tutti, persino da mamma che pure aveva intuito qualcosa. Poi la guerra era finita e lei aveva iniziato a lavorare come commessa. Ma all’amore non aveva più pensato. E neppure alla politica. Troppi ne aveva visti, di una parte e pure dell’altra, riciclarsi in fretta, diventare deputati. Ma non era per questo che lei aveva combattuto. Lei aveva combattuto per amore. Alla politica aveva preferito la Roma, scavando un altro solco, oltre a quelli della memoria, tra sé ed i suoi vecchi compagni. L’accusavano di disimpegno, persino di qualunquismo. Perché invece di andare in piazza, invece di pavoneggiarsi con la medaglia che le avevano conferito, preferiva andare allo Stadio, mischiarsi alla folla e urlare tutta la propria passione. Aveva iniziato in curva, in un periodo in cui le donne si contavano con le dita di una mano sola. E dalla curva si era allontanata, non per scomodità, ma per convinzione. Perché non accettava che qualcuno le dicesse cosa fare, come tifare soprattutto. Lei che aveva iniziato a farlo quando quelli che ora la circondavano non erano neppure nati. Non si era spostata molto, però, solo di un settore, finendo nei distinti sud. Manteneva da allora il suo abbonamento, tanto da meritarsi un qualche riconoscimento, perché se la Roma aveva compiuto da poco 80 anni, lei la seguiva con assiduità da almeno una sessantina. Ma a lei non importavano i pezzi di carta, le targhe e le medaglie. A lei importava solo la Roma. Così, salute permettendo, a 79 anni suonati non mancava mai a una partita anche se col tempo aveva dovuto iniziare a fare i conti con le sue gambe. Quelle che ora non la reggevano più. Aveva faticato non poco a trovare una soluzione e alla fine quella soluzione gliela aveva offerta Giorgio. Che poi neppure Giorgio si chiamava, ma lei non riusciva a ricordare il suo complicato nome filippino e aveva iniziato a chiamarlo così, perché per lei aveva una faccia “da Giorgio” e lui non pareva neppure tanto contrariato. L’offerta spontanea di accompagnarla le era sembrata strana e, peggio, mossa dalla pietà, e questo lei non avrebbe potuto sopportarlo, ma lui l’aveva prevenuta dicendole candidamente che lo faceva solo perché anche lui era romanista. Un filippino romanista. Così anche quella volta si era fatta trovare pronta. Appena un filo di trucco, i capelli a posto, la sciarpa al collo e la coperta a scacchi giallorossi fatta all’uncinetto da mettere sulle gambe troppo magre e sulle sue nuove “gambe”, quella sedia a rotelle che lei ormai usava anche per i piccoli spostamenti. Avevano parcheggiato lontano, perché lei di chiedere il permesso per i portatori di handicap non aveva alcuna voglia. Che lo dessero a quelli che ne avevano davvero bisogno, aveva replicato a chi insisteva per farle scrivere almeno la richiesta. E poi non le dispiaceva districarsi in mezzo alla folla nella tensione del pre-partita e nei commenti dell’uscita. Lei all’Olimpico si sentiva a casa sua. Neppure contro le barriere architettoniche aveva protestato. Non per timidezza, ma perché era convinta che le sole barriere allo Stadio che le davano fastidio fossero quelle tra romanisti, e quante le era toccato di vederne. Le scale le aveva superate appesa al braccio a Giorgio, un gradino alla volta, con tenacia e con pazienza, fino a raggiungere il suo solito posto, dal quale si era riempita gli occhi perché quello Stadio, che troppo spesso ultimamente aveva visto desolantemente vuoto, era finalmente pieno. Pazienza se la folla le impediva una parte della vista del campo. A lei la partita piaceva sentirla, annusarla, per capire che Roma era. E lei di “Rome” ne aveva viste tante. Rabberciate, rassegnate, impunite, frivole e concrete, molli, toste e pure vincenti. E la Roma di quella sera, se lo sentiva, era la Roma giusta. Attorno a lei, mischiate ai tifosi di sempre, tante facce nuove. Gente che viene allo Stadio solo quando c’è una partita di cartello, che vuole vedere l’ “evento” come se la Roma non fosse un evento sempre. E tra le tante facce nuove quella di un signore di una certa età, ma neppure tanto. Catapultato accanto a lei perché Manlio, il suo solito vicino di posto, quella sera non sarebbe stato al suo fianco. Gliel’aveva detto lui stesso l’ultima volta che si erano visti, che non ce l’avrebbe fatta a chiudere la bottega e arrivare in tempo. I suoi istintivi timori sul suo occasionale vicino di posto si erano rivelati presto fondati. Il tizio era una vera “pila de facioli” in perenne sobbollimento. Aveva iniziato a lamentarsi ancor prima di mettersi seduto perché non trovava il suo posto, poi perché non si vedeva bene, perché la gente si accalcava, perché con quello che si paga, e via discorrendo. Poi, a partita iniziata, aveva iniziato a inveire contro i giocatori e al gol del Real aveva aggiunto un “che avevo detto io?” che aveva spinto la mite Emma sul punto di sopprimerlo seduta stante. Come molti, infine, aveva abbandonato lo Stadio anzitempo, per paura del traffico, lasciando finalmente a Emma la possibilità di gustarsi in santa pace i minuti finali, quelli che lei amava di più, perché in quegli istanti si assapora tutta l’energia che sprigiona dallo Stadio. Ovunque tu sarai io non ti lascerò mai |
