venerdì, Giugno 20, 2025 Anno XXI


Roberto avrebbe di gran lunga preferito che la cosa non si sapesse in giro, ma era consapevole in partenza che questo suo desiderio era irrealizzabile. Torre Maura non è un quartiere anonimo, è una comunità molto vivace nella quale mantenere un segreto può essere molto difficile. Così, quando i suoi amici lo incontrarono nella pasticceria di Via dei Colombi, il loro ritrovo abituale,  non negò. Cercò solo di dare scarso peso alla cosa. “E’ vero faccio lo steward, embè?” disse davanti a tutti. Fu Claudio a dare voce all’imbarazzo generale chiedendogli che cosa mai gli fosse passato per la testa. E non fu tenero. “Lo steward, ma ti rendi conto? vuol dire che ti toccherà fare la spia!” e pronunciò la parola “spia” con un sibilo che ne esaltava tutto il valore dispregiativo. “Non è vero!”, rispose Roberto in un sussulto d’orgoglio, “ho principalmente compiti di sicurezza e di protezione dell’incolumità generale, pure la tua, se è per questo…”. Nel dirlo, però, scosse il capo sapendo che nessuno gli avrebbe creduto. E così fu, perché, con un gesto che sembrava premeditato, tutti i suoi vecchi amici gli voltarono le spalle, lasciandolo da solo a bersi un caffè che d’improvviso gli parve amarissimo. Quando se ne furono andati tutti, però, Guido, l’amico d’infanzia, tornò indietro, gli si fece nuovamente sotto e cercò di farsi raccontare. Roberto allora si sfogò pur tentando di mantenere la sua dignità. In fondo a trentacinque anni suonati non era più un ragazzino. Raccontò in una cascata di parole di quando gli avevano proposto la cosa, dei suoi tentennamenti, dei soldi che, comunque, avrebbe guadagnato, perché una ventina di euro scarsi a botta da mettere in tasca non erano tanti, ma neanche pochi, che la nascita di Monica, la terzogenita, aveva costretto a casa Flavia e che quello era l’unico modo per non rinunciare ad andare allo Stadio, che negli anni era diventato casa sua. “Le amanti costano”, gli aveva detto il padre quando Roberto gli aveva confessato che ormai persino l’abbonamento ai distinti sud era diventato per lui un lusso. Come poteva dargli torto Roberto? La Roma come un’amante capricciosa e, da un po’ di tempo, costosa. La Roma da mettere prima di tante altre cose, come nel suo coro preferito: “sostenendo la mia fede io mi sono convinto che, non c’è donna non c’è prete perché in mente ho solo te”. Le sue priorità, proprio quelle che la sua scelta stava mettendo seriamente in discussione. Nell’ordine: i figli, la Roma, Flavia, i genitori, gli amici. Il lavoro non rientrava nelle prime cinque. I soldi neppure nelle prime dieci. Perché i soldi oggi ci sono e domani sono spariti. Guido ascoltò il racconto, ma non commentò. Si limitò ad un in bocca al lupo e si allontanò raggiungendo gli altri e  Roberto in quel momento si rese  conto che, per la prima volta in vita sua, gli amici gli avevano voltato le spalle, che non avevano capito e neppure fatto lo sforzo di capire, ma ormai la sua scelta era fatta. Guardò l’orologio e si affrettò: tra due ore sarebbe iniziato il suo turno, con largo anticipo rispetto all’orario della partita, e doveva ancora passare da casa, cambiarsi e raggiungere lo Stadio per il suo nuovo lavoro, il lavoro dello steward.
Si presentò allo Stadio puntuale, come  era abituato a fare sempre nella vita e sul lavoro, e, visto che  era all’esordio, Manlio, il coordinatore, lo indirizzò in un settore tranquillo, la Tevere laterale, lato nord. Non era proprio il caso di iniziare dalle cose difficili. Percependo il suo imbarazzo, Manlio lo chiamò a sé assicurandosi innanzitutto che Roberto avesse capito bene le istruzioni e poi gli chiese se ci fossero problemi. Roberto rispose con un’alzata di spalle. Manlio fece finta di non aver capito e gli espose chiaramente il suo pensiero. Gli disse che loro erano addetti alla sicurezza, che anche lui era un tifoso di lunga esperienza e che capiva il suo disagio. “E’ tutta questione di tempo”, lo rassicurò Manlio, “la gente deve solo abituarsi alla nostra presenza e poi tutto filerà liscio”. “Stai tranquillo, che quando vedranno come ti comporti dimenticheranno la casacca che indossi e vedranno la persona che è in te, perché il ruolo conta, ma conta di più come sei fatto e che capoccia c’hai”. La serata era fredda e umida e il pubblico decisamente scarso. Roberto fu mandato dal controllo dei tornelli a quello del suo settore, sugli spalti. Restò così, in silenzio, osservando lo Stadio che lentamente si riempiva. Poi il suo sguardo fu attirato da una coppia di ragazzi che stavano scavalcando dai distinti verso la tribuna. Scosse il capo sperando che almeno non si facessero male. Furono intercettati da una collega e Roberto si affrettò a raggiungerla temendo che la donna si facesse prendere dal panico. Fu lui a parlare ai ragazzi dicendo di mettersi seduti, di stare tranquilli e di non costringerlo ad accompagnarli all’uscita. Era un piccolo strappo alla regola, ma la serata era tranquilla, lo Stadio semivuoto e non voleva creare inutili occasioni di tensione. Da lontano il coordinatore del settore annuiva e lui ne fu rassicurato. Si rivolse ai ragazzi  in tono calmo e sicuro, come se facesse quel lavoro da una vita, e fu soddisfatto del risultato perché i due non reagirono. In fondo erano due ragazzini. “Devo essere proprio invecchiato” si disse “se i pischelli mi danno retta”. Certo il fratino con la scritta “steward” l’aveva aiutato, ma più di tutto l’aveva aiutato la stazza. Un metro e novanta e una novantina di chili rendono tutti molto più concilianti. La partita iniziò e lui se la godette come se fosse stato un semplice spettatore. Soffrì, imprecò ed esultò per la Roma come sempre, anche se, abituato ai distinti sud, faceva fatica a trovare i riferimenti in campo. E poi la solitudine gli pesava. Era la prima volta che andava allo Stadio da solo.
La vittoria agevolò non poco il suo compito e quello dei suoi colleghi. Persino i tifosi ospiti se ne stavano belli calmi nel loro settore. Così il turno finì, salutò tutti e uscì, dimenticandosi di lasciare il fratino. Stava per raggiungere l’auto attraversando con passo svelto i piazzali ormai deserti quando vide un gruppo di persone che lo indicava e gli veniva incontro di corsa. La scarsa illuminazione gli impediva di capire chi fossero, ma contò almeno una decina di ragazzi. Erano tutti romanisti, lo si capiva dalle sciarpe. Sudò freddo preparandosi al peggio. Non ebbe neppure il tempo di reagire che uno di loro gli si fece sotto. Lui era teso come una corda. Alzò lo sguardo e vide Guido che urlava il suo nome. Rimase ancora qualche istante interdetto. Guido lo abbracciò e gli disse che erano venuti a prenderlo e che facevano ancora in tempo ad andare a mangiarsi una pizza a Ponte Milvio. Roberto si rilassò, cercò con lo sguardo Claudio e lo trovò.
“E levete quer fratino che pari un catarifrangente”. Furono le parole di Claudio prima di abbracciarlo a sua volta.

Tornano tutti gli amici miei,
forse non sono partiti mai:
erano qui dentro di me
e non l’avevo capito mai;
tornano tutti gli amici miei,
noi non ci siamo lasciati mai,
e sono qui dentro di me,
tornano tutti gli amici miei