venerdì, Luglio 04, 2025 Anno XXI


Giacomo entrò in ufficio quel mercoledì mattina  furibondo. Districandosi tra le scrivanie allineate nell’open space e tra i bassi divisori raggiunse a passo veloce la propria senza degnare di uno sguardo i colleghi che, con pigra assuefazione, officiavano il rito pagano dell’inizio della giornata lavorativa. I tratti del volto contratti, il suo muoversi a scatti, tradivano il nervosismo di cui era preda e non sfuggirono agli astanti che pure, per necessità più che per buona educazione, avevano fatto della riservatezza uno stile di vita. Ci vuole una convinta adesione alla pratica zen per mantenersi calmi in un ambiente di 500 metri quadrati affollato di gente che scrive al pc, conversa al telefono e si muove in continuazione. Il gesto brusco con il quale Giacomo gettò il fascio di quotidiani sul tavolo fu un segnale per tutti: Giacomo quel giorno era off limits. Luca assistette all’intera scena da una postazione privilegiata. Il suo ruolo di capo progetto, infatti, gli dava diritto ad un ufficio riservato, protetto dal resto dell’open space dai vetri oscurati che dall’interno consentivano la vista dell’intero ambiente di lavoro garantendogli una certa riservatezza. Luca prese il telefono e digitò l’interno di Giacomo che conosceva a memoria. Lo salutò frettolosamente e gli chiese di raggiungerlo. Giacomo, afferrato il ricevitore, rispose all’invito con un grugnito, si alzò di scatto e raggiunse l’ufficio di Luca. Luca non aspettò neppure che Giacomo chiudesse la porta per chiedergli che cosa mai avesse quella mattina e Giacomo rispose che era colpa di quello che era accaduto la sera precedente. Luca a quell’affermazione restò interdetto. Sapeva della passione viscerale di Giacomo per la Roma, passione che lui stesso condivideva e, conoscendo il risultato della partita della sera prima, la prima vittoria in casa della Roma contro il Real Madrid, non si spiegava il malumore di Giacomo. Giacomo straripò come un fiume in piena. Gli raccontò che la sera prima era andato allo Stadio con i suoi due figli, come faceva sempre, da abbonato nei distinti nord, e che il settore, di solito semi vuoto, era pieno all’inverosimile. Gente accalcata ovunque, persino sulle scale, ragazzi che scavalcavano da un settore all’altro, senza che nessuno intervenisse o facesse qualcosa per impedirlo. E poi c’era sempre quel gruppetto di una quindicina di persone dietro uno striscione giù in basso, sulla balconata. Tutti con le stesse sciarpe,  in piedi a fare casino, manco fossero i padroni del settore. A lui questa cosa non andava giù. Lui pagava per vedere la partita e poi si sentiva minacciato da quella gente, si era spaventato per sé e per i propri figli. Luca lo ascoltò senza commentare e poi gli chiese cosa mai avesse intenzione di fare. Giacomo, allora, gli rispose che ci aveva pensato tutta la notte e che venendo in ufficio aveva avuto un’idea. Avrebbe scritto al giornale denunciando la cosa, li avrebbe fatti mettere a posto da chi di dovere. Luca scosse il capo sconsolato. Pensò a se stesso e al fatto che aveva smesso di andare allo Stadio per motivi opposti a quelli di Giacomo. Che si era stancato di norme, divieti e limitazioni e che se doveva vedersi la partita senza fiatare, seduto e composto, tanto valeva restarsene a casa. Congiunse le mani e tentò di far ragionare Giacomo. Quando ebbe la sensazione che lo sfogo fosse finito gli disse a bruciapelo: “perché invece non ci vai a parlare?”. Giacomo replicò che rischiava solo di prenderle e aggiunse un “tu non li conosci quelli!” detto con voce strozzata. Luca replicò prontamente: “perché tu li conosci?”. “No, ma so giudicare la gente io, vedrai che al massimo rimedio due schiaffi”. Detto questo uscì dalla porta senza salutare e tornò alla sua postazione. Il corriere interno era appena passato e la sua scrivania era ora ingombra di pratiche. Si mise al lavoro sperando di smaltire il cattivo umore. Durante la pausa del pranzo restò al suo posto e iniziò a comporre la lettera. Iniziò con il solito “caro direttore” e sciorinò tutte le sue lamentele cercando di mantenersi sul vago per evitare rappresaglie. Corresse qualche errore di battitura, si collegò alla sua casella di posta elettronica personale e ricopiò il testo inserendo l’indirizzo e-mail della redazione del giornale. Lo rilesse ancora una volta e stava per inviarlo quando la sua mano si bloccò. All’improvviso si sentì un delatore. Immaginò la scena. Gli steward che accorrono in massa e magari si portano via qualche ragazzo. A quel pensiero tutta la sua rabbia sfumò. Annullò l’invio e si disse che tanto domenica si rigiocava in casa e avrebbe tentato di parlarci. Poi se le cose fossero degenerate si sarebbe preso le sue responsabilità. Costasse quel che costasse.
La domenica successiva Roma era inebriata di sole. La giornata ideale per andare allo Stadio. I suoi cuccioli erano già pronti e s’imbarcarono in macchina. Giacomo era teso come una corda, ma non voleva che i piccoli se ne accorgessero. Entrò nello Stadio semivuoto per l’ora, rivolse lo sguardo alla balconata in basso e li vide. Li esaminò uno ad uno. Scherzavano tra loro e si salutavano dandosi pacche sulle spalle e baci sulle gote. C’erano anche delle ragazze e persino due ragazzini dell’età dei suoi cuccioli. Con discrezione si avvicinò assieme ai suoi figli ad una delle ragazze. Si presentò, le chiese chi fossero e come mai restavano lì invece di mettersi seduti. La ragazza si dimostrò tutt’altro che ostile visto che la prima cosa che fece fu di complimentarsi per i piccoli agghindati di tutto punto. Alle  insistenze di Giacomo di spiegare il loro comportamento si mise seduta con lui poco più in basso rispetto alla balconata e gli raccontò la storia del loro gruppo, della loro associazione. All’improvviso alle loro spalle ci fu una grande agitazione. Una ragazza del gruppo festeggiava il compleanno e aveva portato da mangiare per un esercito. La ragazza con la quale si era sino ad allora intrattenuto si scusò, si alzò, salutò l’amica e tornando si rivolse ai piccoli chiedendogli se volevano mangiare una pizzetta. I piccoli lo guardarono interdetti e solo dopo che lui assentì con un gesto del capo accettarono. Lui ringraziò e tornò al suo posto rasserenato. Nell’intervallo il gruppo si ricompattò e lui fu preso nuovamente dalla tentazione di andare a parlarci. Intercettò un ragazzo del gruppo e con calma gli raccontò del suo disagio. Quello l’ascoltò con attenzione e con altrettanta pacatezza gli spiegò le sue ragioni. Mentre stava per replicare, Giacomo si trovò sotto il naso un vassoio con una torta esagerata. Visibilmente imbarazzato accettò  di prenderne una fetta, sentendosi colpevole perché aveva perso il controllo dei suoi cuccioli. Si girò e li vide giocare con una palletta di carta assieme ai due ragazzini del gruppo. In vita sua non era mai stato così bene allo Stadio. Tornò al suo posto e si gustò la partita. Nell’uscire dallo Stadio incrociò nuovamente il gruppo che stava arrotolando lo striscione esposto in balconata. Rilesse il nome per fissarselo bene in mente e si ripromise di andare a controllare, ma poi vide quello stesso nome sulla sciarpa che portava al collo uno dei suoi cuccioli. Bruscamente chiese al piccolo a chi l’avesse presa. E il ragazzino confessò che gli era stata regalata dal ragazzo col quale Giacomo si era intrattenuto. “Forte eh?” aggiunse il piccolo. L’altro, invece, gli chiese chi fossero quelli e la risposta di Giacomo sorprese anche lui stesso: “sono tifosi della Roma, grandi tifosi”. Il campionato era ancora lungo, c’era tutto il tempo per capire e per conoscersi.

Ho perso le parole
eppure ce le avevo qua un attimo fa,
dovevo dire cose
cose che sai,
che ti dovevo
che ti dovrei.
Ho perso le parole
può darsi che abbia perso solo le mie bugie,
si son nascoste bene
forse però,
semplicemente
non eran mie.

(*) La vita, come ha descritto efficacemente Peter Howitt nel suo Sliding Doors, è fatta di scelte e di casualità. La piccola storia vera da cui è liberamente tratto il racconto è andata diversamente. Ma un’altra chance è a portata di mano. Basta aprire la porta invece di chiuderla.