domenica, Maggio 11, 2025 Anno XXI


Con i suoi 73 anni assai ben portati Elide si poteva definire una donna ancora perfettamente attiva, anche se la perdita del suo Alfio, che se fosse stato vivo quell’anno avrebbe festeggiato le 76 primavere, le aveva trafitto l’anima e non era certa che il tempo che le restava da vivere sarebbe bastato a farle rimarginare la ferita.
Con Alfio aveva condiviso quarant’anni di vita e la sua perdita le era  ancora palpabile nelle lunghe giornate che  trascorreva per lo più da sola. Ad essere onesti, commentava Elide con un filo d’ironia, non sarebbero stati neppure quarant’anni di vita comune, perché avrebbe dovuto sottrarre tutto il tempo che Alfio aveva passato appresso a quell’altra. Solo che l’altra, come ora bonariamente Elide la definiva, non era, per fortuna di Elide, una donna, ma una passione. La passione di una vita, la passione per la Roma.
Una sola volta Alfio aveva condiviso quella passione con Elide, nel lontano 1956. Allora erano ancora fidanzati e non era  facile frequentarsi senza destare la reazione delle malelingue. Elide aveva da poco compiuto 21 anni, la maggiore età dell’epoca, e Alfio l’aveva invitata a passare la domenica fuori. La meraviglia di Elide, che già aveva sentore della passione del futuro marito, e il suo compiacimento per il fatto che Alfio vi potesse rinunciare per lei, si erano immediatamente tramutati in delusione quando lui le aveva detto che quella domenica sarebbero andati assieme allo Stadio. Di quella giornata non ricordava molto. Solo la confusione, la lunga camminata per raggiungere lo Stadio e poi le grida e le voci che l’avevano costretta a passare tutto il tempo stretta al braccio di Alfio, lei che aveva il terrore della folla. Di calcio non capiva nulla, ma non si sarebbe mai azzardata a chiedere spiegazioni ad Alfio che seguiva la partita in una sorta di stato ipnotico. Doveva supporre, però, dalla contentezza dell’allora fidanzato, che avessero vinto.
Alfio non aveva ripetuto in seguito l’invito e lei non aveva certo insistito, convinta che una volta le era bastata e avanzata. Il matrimonio e la nascita cadenzata dei  tre figli avevano mandato in soffitta ogni ambizione di Elide di seguire il marito nella sua passione e la sua vita coniugale non ne aveva risentito granché, se non che la domenica per Elide c’erano solo due alternative. Se la Roma giocava in casa, doveva affrettarsi a preparare qualcosa da mangiare che Alfio potesse portarsi al campo, che almeno non restasse a stomaco vuoto, e, a parte, il pranzo per lei e i bambini. Se invece la Roma giocava fuori casa, il pranzo familiare doveva concludersi in tempo per l’inizio della partita che Alfio seguiva con religiosa concentrazione alla radio collocata nel piccolo salotto, con Elide che restava in cucina con i bambini per non disturbare il marito.
La loro vita era proseguita così, senza particolari sussulti, fino alla prematura scomparsa del suo Alfio.
I figli erano cresciuti e se ne erano andati di casa.
Marco, il primogenito, si era addirittura trasferito a Milano per lavoro. Francesca, la prima figlia, invece, dopo un matrimonio burrascoso senza figli, viveva per conto suo e solo di tanto in tanto le faceva visita. Le era rimasta vicino solo Paola, la più piccola, felicemente sposata e con due bellissimi bambini, Matteo di nove anni e Carlotta di sette. Paola adorava la madre, soprattutto ora che era rimasta vedova, ma non le nascondeva il suo risentimento per il fatto che non volesse “fare la nonna”. A Paola, pur con tutto l’affetto, Elide glielo aveva detto chiaro e tondo: “trulli, trulli, i figli chi li fa se li trastulli”.
Quel sabato, però, Elide non aveva saputo dire di no a Paola, che doveva andare ad un matrimonio, ed aveva accettato di tenere con sé Matteo e Carlotta, “fino alle sei” aveva pattuito.
Aveva preparato un pranzo leggero per sé e per i nipoti e poi li aveva messi a nanna sul suo lettone per il  riposino pomeridiano. Alle quattro li aveva svegliati e si era posta il problema di come fargli trascorrere il tempo, perché di lasciarli davanti al televisore non se ne parlava proprio e le favole che aveva raccontato ai suoi figli non se le ricordava più.
Fu la foto di Alfio, in bella mostra sul cassettone, a ispirarla.
Elide allora cominciò a raccontare ai nipoti la sua personalissima favola. “Cor core acceso de la passione undici atleti Roma chiamò, e sott’ar sole der Cuppolone ‘na bella maja e du’ colori je trovò”. Dopo quell’inizio Elide ebbe un sussulto di commozione. In tanti anni, infatti, non aveva mai confessato al suo amato Alfio che anche lei aveva preso a condividere la sua stessa passione. Elide proseguì raccontando la storia della Roma filtrata attraverso i suoi ricordi personali e gli sporadici racconti del marito, nell’esaltazione per le vittorie e nella tristezza per le sconfitte. Del fatto che la Roma, da vera eroina, si fosse sempre battuta contro quelli che vincevano con l’inganno. E poi Elide narrò la storia di Francesco, di un bellissimo bambino biondo diventato Capitano della Roma, conducendola alla vittoria del terzo scudetto. I bambini l’ascoltavano rapiti e neppure si accorsero che i genitori erano venuti a prenderli e aspettavano in silenzio che Elide finisse la sua storia.
Elide, alla vista della figlia, interruppe il racconto e allora Matteo la prese per un braccio chiedendole: “nonna non ci dici come va a finire?”.
“Come va a finire lo scopriremo insieme domani, perché vi porto con me allo Stadio, dove andava il nonno” disse Elide con tono soddisfatto.
Lo sguardo allarmato della figlia non la turbò. In quel momento, ne era certa, Alfio le stava sorridendo dal Paradiso.

Perché perché la domenica mi lasci sempre sola
per andare a vedere la partita di pallone
perché, perché una volta non ci porti pure me
Ma un giorno ti seguirò perché
ho dei dubbi che non mi fan dormir.
E se scoprir io potrò che
mi vuoi imbrogliar, da mamma ritornerò!