sabato, Giugno 21, 2025 Anno XXI


Agostino attraversò con pochi colpi di pedale Piazza Martiri della Libertà, il centro della sua città, a Mirano. Poco più avanti accostò, scese dalla bicicletta che non si preoccupò di legare, si avvicinò all’edicola con passo furtivo e chiese a bassa voce la rivista che aveva ordinato. L’edicolante agì altrettanto furtivamente, prese la rivista e la infilò discretamente dentro al Gazzettino, porse l’involucro ad Agostino, prese i soldi e lo salutò con un cenno del capo. Agostino si guardò intorno e, una volta che fu sicuro di non essere visto, aprì l’involucro. L’indice di Francesco Totti, del Capitano, che sembrava fuoriuscire dalla copertina della rivista, il numero di febbraio de laRoma, gli parve rivolto proprio a lui e la cosa lo rese orgoglioso. Fiero della sua fede coltivata in una terra così ostile, ripensò a come era nata quella passione e sorrise di sé. Il suo amore, perché di amore si trattava, era sbocciato solo pochi anni prima, ai tempi dell’Università. Lui, cresciuto a polenta e rugby, in una cittadina che di ovale ha anche la piazza principale, di calcio non si interessava. Ma in quegli anni il Venezia aveva raggiunto di nuovo la serie A e nelle calli e tra i compagni d’Università non si parlava d’altro. Così si era fatto convincere ad andare, per la prima volta in vita sua, allo Stadio, se poi Stadio si poteva definire quell’ammasso di tubi che è il Penzo di Sant’Elena all’estremità della città lagunare. Si era fatto comprare il biglietto nel settore più caldo del tifo veneziano e in una giornata di primavera era andato a vedere la partita più attesa, quella contro la Roma campione d’Italia. Agostino proprio non sapeva che cosa fosse scattato in lui quel giorno. Forse l’antica rivalità tra Miranesi e Veneziani, forse la magia dei colori giallorossi e l’entusiasmo dei tifosi in trasferta, forse il suo sentirsi forestiero in mezzo ai dominatori di un tempo, però la scintilla era scoccata e, da quel giorno esatto, lui era diventato romanista.
Non immaginava, però, quanto quella sua fede avrebbe dovuto tenerla clandestina incarnando il detto per cui nessuno è profeta a casa propria.
La prima volta che si era trovato ad accennare la cosa, i suoi amici lo avevano guardato come se avesse detto loro di essere stato colpito da una malattia mentale. Loro, che guardavano a tutto ciò che è posto al di sotto del Po con un misto di diffidenza e di avversione, non capivano il motivo per cui, tra tante squadre blasonate, “Gosto” avesse deciso di scegliere proprio quella della città più odiata. Doveva essergli andato di volta il cervello.
La Roma, Roma città, Roma dei Palazzi del Potere, Roma ladrona, quanto poco ci voleva per i suoi concittadini a far di un’erba un mazzo e, per la proprietà transitiva dell’ostilità, lui era diventato improvvisamente un nemico.
Agostino non si sentiva in colpa, però, per la sua fede giallorossa, al contrario.
Riteneva molto più naturale per un Miranese essere romanista piuttosto che juventino, come la maggior parte dei suoi amici, oppure interista o milanista. Mirano la colta, l’austera, il luogo di elezione della famiglia Tiepolo, la città delle Ville affrescate, gli sembrava assai più degnamente rappresentata dalla squadra della città del Bernini e del Borromini, piuttosto che dall’arroganza dei nuovi ricchi del boom economico.
Laureatosi in Conservazione dei beni culturali si era regalato il suo primo viaggio a Roma, da solo. Aveva trovato ospitalità presso alcuni concittadini amici dei suoi, perché i Miranesi sono ovunque, e si era concesso due settimane per visitare la Città Eterna. Ne era rimasto folgorato. Lui che era solito svegliarsi con la nebbia, si era ritrovato immerso nell’estate romana e ci si era ambientato in pochissimo tempo. Da bravo Miranese, abituato ad una città che funzionava come un orologio, pulita ed ordinata, aveva faticato un bel po’ ad orientarsi nella “caciara” romana, ma poi a quella confusione ci aveva persino preso gusto. Aveva girato per i vicoli, le piazze, visitato chiese e musei, ammirato i monumenti, ma non aveva fatto solo quello. Finalmente era a Roma e poteva esibire la sua fede senza temere di essere preso in giro. Al Roma Point di Piazza Colonna aveva comprato una bella sciarpa e l’aveva indossata immediatamente, nonostante il caldo, poi se n’era andato girovagando tra Testaccio e la Garbatella, ancora colorati di giallorosso, in cerca di qualche segno romanista. Così abbigliato era entrato in un Bar e aveva ordinato una bibita. La sua parlata veneta non era passata inosservata però, e il barista l’aveva guardato in tralice chiedendogli: “a polentò, ma che ce stai a pijà per culo?”. Lui lì per lì si era risentito, pronto a voltare le spalle e ad  andarsene senza neanche pagare, ma poi si era reso conto che quello fuori posto era lui e si era confidato con lo sconosciuto. Il barista lo aveva lasciato parlare e poco a poco il sospetto si era tramutato in simpatia. Agostino aveva finito per passarci la mattinata in quel Bar rapito dai mille racconti del suo ospite e dei frequentatori del locale. Il suo unico rimpianto era di non essere riuscito a vedere la Roma all’Olimpico, perché in quel periodo il campionato era fermo e così si era dovuto accontentare di fare incetta di foto, di libri e di ogni gadget gli capitasse a tiro. La Roma poi l’aveva vista dal vivo altre volte, in giro per le città del lombardo-veneto, da Udine a Verona, spingendosi fino a Milano, a Brescia e a Bergamo, ma all’Olimpico non aveva mai avuto l’occasione di andare.
Agostino rimise la rivista al centro del quotidiano, ripose il tutto nel cestino della bici, controllò di avere con sé l’abbonamento ferroviario e quello dell’ACTV e si diresse verso la stazione.
Parcheggiata la bici, prese il regionale per Venezia come aveva fatto mille volte da studente, scese a Santa Lucia e in pochi passi fu alla fermata del vaporetto dove attese solo qualche minuto e salì al volo sul 2. Alla fermata di Rialto si districò tra la folla e andò dritto verso il Ponte dei giocattoli dove gli avevano detto che avrebbe trovato la ricevitoria della Lottomatica. Entrò e si mise in fila. Quando fu il suo turno, vincendo la sua naturale timidezza, disse con voce ferma che voleva un biglietto per Roma-Real Madrid. L’addetto lo guardò diffidente e si fece ripetere bene l’ordine, poi gli chiese un documento e digitò i dati, senza degnarlo di un saluto. Agostino si sentì fortunato quando la macchina prese a stampare il suo biglietto e stava per afferrarlo dal banco quando il gestore intervenne e lo bloccò. Questi prese il biglietto, inforcò gli occhiali da presbite e ripetè il nome scritto sul biglietto: “Agostino… Agostino… che bel nome che c’hai, come Agostino Di Bartolomei”. Fu solo uno sguardo  quello che i due si scambiarono in un lampo. Agostino pagò e si mise il biglietto in tasca. Uscendo dal locale si voltò e disse: “si, come il Capitano”.
Avvolto dalla nebbia mattutina Agostino sorrise e d’improvviso Venezia gli sembrò più bella.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa.