venerdì, Giugno 20, 2025 Anno XXI


“Dallo Stadio Olimpico è tutto. Signore e Signori, da Maurizio Compagnoni e da Antonio Di Gennaro la più cordiale buona sera”. Daniele spense il televisore e guardò l’orologio: era già l’una di notte. Intorno a lui la casa era avvolta nel silenzio, ma lui non aveva ancora sonno. Gli succedeva così ogni volta. Ogni volta che giocava la Roma. Anche se tutto era andato bene, anche se, come stavolta, avevano vinto. Ogni volta la stessa sofferenza. “La colpa è di questa squadra che non chiude mai le partite” rimuginò, poi sorridendo a se stesso con un lampo che gli attraversava gli occhi, si disse: “no, la colpa è di come sono fatto io”.
In vita sua non gli era mai capitato di guardare una partita della Roma senza attendere come una liberazione il fischio finale. Era accaduto così sempre, anche quando il risultato non era minimamente in discussione. Rammentava perfettamente le sue ansie e le sue trepidazioni, persino quella volta del derby vinto 5-1, o, in tempi più recenti, della prima finale di Coppa Italia, con la Roma avanti 6-2 sull’Inter fresca campione d’Italia. La stessa identica paura di cadere proprio in vista del traguardo. Eppure nella vita lui non era esattamente quello che si definisce un pauroso, un pavido, uno che scappa di fronte alle avversità. Al contrario. Per carattere affrontava la vita di petto e sapeva bene quanto questo suo coraggio, qualcuno dei suoi amici lo definiva testardaggine, gli era costato. Daniele non aveva peli sulla lingua e quando si trattava di esprimere la propria opinione non si tirava certo indietro. Con la Roma era diverso. Con la Roma tremava sempre fino all’ultimo.
Nonostante tutto Daniele a quella sofferenza non riusciva proprio a rinunciare, perché la sofferenza era parte integrante del suo essere romano “e romanista de più”, e quindi era parte di se stesso. Come l’aria che respirava, come i battiti del suo cuore.
Invano la moglie, la dolcissima Anja, aveva cercato di dissuaderlo dal farsi coinvolgere così tanto dalle emozioni, perché in fondo si trattava pur sempre di una partita di pallone, di un gioco.
Anja, che guardava alla sua passione come ad una stravaganza che si può perdonare a chi si ama anche se non la si capisce.
Anja, che gli aveva donato due bellissimi cuccioli, che sopportava in silenzio il suo amore per la Roma e che accettava di lasciarlo da solo davanti al televisore per ore intere.
Lui stesso, in cuor suo, guardava a quella passione viscerale con un vago senso di colpa.
Non bastavano le difficoltà quotidiane, lo stress per il lavoro, le preoccupazioni per i figli?
Muovendosi al buio come un gatto, cercando di non fare il minimo rumore per non svegliare Anja e i due piccoli, si spostò dal salone alla piccola stanza che aveva trasformato nel suo studio, nella sua cuccia.
Il silenzio che avvolgeva la casa lo rassicurò. Poteva distinguere chiaramente il respiro tranquillo dei suoi cari sotto le coltri, e questa pace sarebbe forse bastata a placare la sua inquietudine.
Ma gli restava ancora qualcosa da fare.
Accese il pc, sperando che il rumore del disco fisso non svegliasse nessuno, digitò la password e si immerse nel suo mondo parallelo alla vita reale, o forse più reale della sua vita quotidiana.
Si collegò al web e non ebbe neppure bisogno di scrivere l’indirizzo del sito, perché da tempo ne aveva fatto la sua pagina iniziale.
In pochi istanti il video passò dal grigio ai colori giallorossi proiettando quei colori nella semi oscurità della stanza.
Diede appena un’occhiata alla home-page, scosse il capo perché non era ancora aggiornata, e senza esitazioni si concentrò sulla parte del sito che preferiva.
Entrò e diede una scorsa ai messaggi lasciati in precedenza. Non aveva tempo per leggerli tutti, si era fatto troppo tardi.
Scrisse solo poche righe, mischiando critiche ed elogi alla squadra e si compiacque: dopo tanti anni il suo romanesco, la sua lingua madre, era ancora fluente e graffiante.
Attese solo qualche istante che qualcuno gli rispondesse, ma poi pensò che a quell’ora erano già tutti andati a dormire e si rassegnò a non avere risposta.
Domattina avrebbe controllato.
Stava per chiudere il pc, ma ebbe ancora un piccolo sussulto.
Rapidamente cercò tra i preferiti il sito della webcam su Roma e si collegò.
Roma, seppure avvolta dall’oscurità, gli si parò davanti maestosa e bellissima.
Il Colosseo, i Fori, il Cupolone. Una dopo l’altra le immagini si susseguivano sullo schermo mostrandogli il brulicare dei turisti, il pulsare della città, il fluire del traffico nonostante l’ora tarda.
La nitidezza delle immagini e la quantità di gente in giro lo convinse che doveva essere stata una giornata di sole, neppure troppo fredda rispetto a quelle a cui lui si era ormai abituato.
Restò così, ammaliato, come se vedesse quelle immagini per la prima volta, come se quella che vedeva non fosse casa sua, come se quelle pietre e quei luoghi non incarnassero la sua storia personale.
Non lasciò però che le emozioni lo travolgessero completamente e spense tutto.
Con passo felpato, ancora nell’oscurità, raggiunse la cucina per dissetarsi.
Si accorse allora che qualcuno aveva dimenticato aperta la tapparella e che un diffuso chiarore filtrava dal vetro ormai appannato.
Il suo sguardo si proiettò fuori scorgendo un paesaggio lunare, completamente ricoperto da una fitta coltre di neve, quella stessa neve che, in silenzio, continuava  a cadere dal cielo ingiallito dal riflesso della luce dei lampioni.
Con una stretta al cuore pensò che non sarebbe mai riuscito ad abituarsi.
Se solo non fosse stato così lontano…

Here I am again in this mean old town
And you’re so far away from me
And where are you when the sun goes down
You’re so far away from me
So far away from me
So far I just can’t see
So far away from me
You’re so far away from me

(*) Dedicata a tutti quelli che vivono la loro passione per la Roma a migliaia di chilometri da casa, spesso sotto una fitta coltre di neve.