venerdì, Giugno 20, 2025 Anno XXI


Essere o avere, avere od essere. Basta andare un po’ in giro. Per i bar, i mercati, i circoli, oppure per le radio o per il web. Ovunque si parli di A.S. Roma e di romanismo. Ovunque il popolo sangueoro possa esprimersi.
Per capire che questo problema dell’alternativa tra essere o avere tutti noi romanisti siamo chiamati ad affrontarlo d’ora in poi.
E per individuare i due opposti dell’alternativa non serve scomodare Erich Fromm e il saggio che ha fatto riflettere una generazione intera, guarda caso quella che oggi ha quarant’anni o poco più.
La generazione dei romanisti dell’essere, dell’appartenenza sempre e comunque, oltre il risultato.
Il popolo romanista è da sempre inclinato all’essere.
I cori, le coreografie, le canzoni, hanno sempre celebrato la sua identità, il suo attaccamento alla maglia, ai colori, alla Storia, piuttosto che le sue ambizioni di vittoria o i risultati sportivi raggiunti.
Le tifoserie dell’avere sono sempre state altre, quelle delle squadre con le maglie a righe.
Sono loro che contestano le loro società perché un anno non vincono niente. E difendono i corruttori attaccando chi vorrebbe punirli.
Il timore che la deriva del «Rosella vattene» porti a questo cambiamento di pelle, di cultura romanista, si sta impadronendo di una parte del popolo giallorosso.
Riecheggia nell’invocazione del tifo «vintage», delle «vecchie maniere», che accomuna una generazione, guarda caso proprio quella dei quasi quarantenni per difetto o per eccesso.
Quella generazione che ha visto trasformarsi la Rometta nella Roma, ha goduto dei successi, ma è rimasta fedele alle proprie origini, a quando andava allo Stadio per tifare la Roma, per difendere la Roma, qualunque Roma, anche e soprattutto nella sconfitta.
E che considera questa cultura dell’essere parte integrante, sostanziale e ineliminabile, del proprio essere romanista.
Il «nuovo romanista», se mai in questi tempi ne è nato uno, è per me fondamentalmente un romanista stanco.
Stanco di prenderle anche quando dovrebbe darle, di essere sempre incudine e mai martello, di non avere mai il centesimo per fare l’euro.
Un romanista che vuole vincere.
E che ha la netta sensazione, anzi la certezza, che con questa proprietà non vincerà mai.
Che solo con la passione, il progetto, le giovani leve, l’autofinanziamento, non si vincerà mai. Perché i tempi sono cambiati, il Mondo è cambiato, il calcio è cambiato e tocca adeguarsi.
Che serva «altro», anche se ancora non è in grado di capire cosa sia questo «altro».
«Rosella vattene», Rosella cancellati, eliminati, fai spazio.
Anche se questo spazio attira compratori dai contorni indefiniti, impalpabili, anonimi.
Un «altro» che solo per essere tale non potrà che essere vincente.
Perché il presente è percepito troppo perdente perché un altro presente sia peggiore dell’attuale.
Sia chiaro che l’aspettativa di vincere è perfettamente legittima.
E che la contrapposizione non deve far pensare che il tifoso «vintage» sia un perdente.
Il problema è solo uno.
A che prezzo?
Il fatto è che le tifoserie che sono passate dalla cultura dell’essere a quella dell’avere hanno pagato pesantemente pegno.
Che non sembra possibile scindere la cultura dell’avere, dall’avere a qualunque costo.
Dalla trasformazione del tifoso in utente, o peggio in «fan».
Un tifoso senza tanti peli sullo stomaco, specie quando si tratta di scegliere la strada per la vittoria.
Un tifoso che condiziona la sua presenza allo Stadio, l’acquisto del merchandising, la sua appartenenza, ai risultati raggiunti in una stagione, pronto ad innamorarsi quando si vince come a disamorarsi quando si perde, o semplicemente non si vince.
«Noi siamo diversi» è l’obiezione che fanno i «nuovi tifosi».
Lo saremo anche col primo Fioranelli che passa?
Lo saremo anche se non staremo a guardare troppo per il sottile da dove e da chi arrivano i soldi che spenderà e come farà per arrivare ai risultati che tutti auspichiamo?
Si può essere ancora «tifosi diversi» se la proprietà, i dirigenti, la cultura sportiva di una squadra cambiano così repentinamente?
Se il suo Presidente, la sua proprietà passano dalla passione al puro business?
E siamo tanto sicuri che l’impunità concessa allo striscione vergognoso contro Antonio De Falchi apparso domenica a Milano nonostante Osservatorio, Casms e tessera del tifoso non sia figlia della stessa cultura del disprezzo e dell’arroganza che ha generato i fischi a Maldini ed entrambi non siano comunque il prodotto dei valori del Milan inteso anche come Società e come Presidenza?
Una Società e una Presidenza che hanno fatto della vittoria un credo, anzi un imperativo categorico.
O, piuttosto, non capiterà che si finisca comunque col diventare collaterali a questo modello culturale dell’avere tutto, subito e a qualunque costo fino ad esserne condizionati?
Noi vogliamo comunque essere diversi, sicuramente.
Indipendentemente dal cambio di proprietà.
La domanda che si pone è semplice e terribile insieme e coinvolge nuovi tifosi e «tifosi vintage».
Ci interroga come romanisti del presente e del futuro.
Sapremo noi affrontare questa sfida e vincerla?