giovedì, Maggio 08, 2025 Anno XXI


Quella domenica, pensò Annalisa, finalmente Roma si comportava da Roma. Il sole aveva iniziato a inondare la sua stanza sin dalle primissime ore del mattino, impedendole di poltrire come avrebbe voluto, e come in fondo si sarebbe meritata dopo una settimana di lavoro, costringendola ad abbandonare le amate coltri: il Poeta avrebbe detto: «le beau temps l’avait tiré par la veste…». Annalisa prese la cosa con filosofia, si alzò nel silenzio della casa ancora impigrita dal giorno festivo e si preparò ad uscire, senza dimenticarsi, però, di infilare in un piccolo zaino un cambio. In un giorno del genere, tutto era possibile.
Afferrò le chiavi della piccola auto, inviò un bacio silenzioso alle sue spalle e si trovò fuori. Roma ancora dormiva.
Nella città ancora semideserta non ci mise molto a raggiungere il lungotevere Tor di Nona, dove lasciò l’auto e si diresse, a piccoli passi, verso Piazza Navona, passando per le strade degli antiquari e salutando la Statua del Pasquino. Giunta nella piazza acquistò un quotidiano e si mise seduta ad uno dei tavolini dei Tre Scalini per consumare la colazione. Un piccolo lusso per le sue tasche che la ripagava di una settimana chiusa in ufficio tra le luci artificiali e lo squillare incessante dei telefoni.
Stette così indisturbata per un paio d’ore e si alzò solo quando la Piazza iniziò ad affollarsi delle comitive vocianti dei turisti. Allora fece il numero di Francesca, che ancora poltriva e che la salutò senza particolare entusiasmo, prendendo appuntamento per l’ora di pranzo a casa dell’amica: sole o non sole Annalisa doveva trovare il modo di vedere la Roma, impegnata nella difficile trasferta di Genova.
Già, Genova. Lo Stadio di Marassi era un luogo di dolci ricordi per Annalisa. Prima dei divieti lei non aveva mancato una sola volta di andarci. Forse perché Genova cosi suoi chiaroscuri era così vicina al suo carattere melanconico, forse perché a Genova aveva visto uno dei più bei gol del Capitano, Annalisa non aveva mai saltato una trasferta, costringendosi a vere e proprie «ammazzate» di ore sul pullman o in treno. Quella volta la partita era costretta a vederla in televisione purtroppo e il suo sostegno alla squadra l’aveva dato il giorno prima stretta tra le migliaia dei tifosi andati a Trigoria per una «trasfusione d’amore» alla squadra come aveva scritto Emanuele.
Annalisa fece ritorno in fretta all’auto fermandosi solo un attimo in pasticceria ad acquistare un cabaret di paste al cioccolato, certa con questo gesto di farsi perdonare da Francesca, golosissima.
Raggiunse la casa dell’amica verso mezzogiorno e nell’entrare nel piccolo appartamento, che non superava i sessanta metri quadri, le sembrò di catapultarsi nella sua amata Curva Sud. L’ambiente era stipato di amici vestiti esattamente come se dovessero andare allo Stadio: c’era persino un’enorme bandiera a scacchi messa dietro al televisore.
Francesca, da brava padrona di casa, aveva sapientemente distribuito cibi e bevande su tutti i ripiani possibili evitando agli ospiti di girovagare.
Alle quindici erano tutti davanti al video e Annalisa si accoccolò ai piedi del divano letto che occupava tre quarti del piccolo salone, dove rimase in silenzio per quasi tutta la partita. Era il suo modo di fare il tifo: in perenne sofferenza.
Al rigore, Annalisa, non potendo alzarsi senza calpestare i propri vicini, si limitò a seppellire il viso tra le mani, alzando lo sguardo al televisore solo dopo l’urlo liberatorio che fece tremare tutta la casa.
Finita la partita, gli ospiti si allontanarono alla spicciolata e Annalisa finalmente rimase sola con Francesca. Assieme presero il cabaret delle paste portate da Annalisa e, silenziosamente, le consumarono come due bimbe golose.
Francesca, guardando negli occhi l’amica, le chiese: «che fai ora? vai a casa o ti fermi ancora?».
Annalisa la guardò interdetta e le domandò a sua volta che cosa avesse fatto la Lazio ottenendo la replica soddisfatta di Francesca che le comunicò trionfante che gli abusivi avevano raccolto tre pere alle spalle di Muslera.
Annalisa abbozzò un sorriso, incerta se rivelare all’amica il suo segreto, poi optò per la riservatezza.
Salutò l’amica e iniziò a girovagare per Roma senza meta ritardando il più possibile il ritorno alle mura domestiche. Si fermò in un locale che conosceva e sorbì una piccola birra senza particolare entusiasmo: prima o poi «quel problema» avrebbe dovuto risolverlo, ma la sua vita era già sufficientemente incasinata di suo senza dovervi aggiungere altre complicazioni.
Verso le ventuno Annalisa entrò nel portone di casa e mise la chiave nella toppa.
Come temeva, come in fondo già sapeva, il paletto al di là della porta le impedì di entrare.
Rassegnata, ma senza alcuna intenzione di fare voci che avrebbero attirato l’attenzione di tutto il caseggiato, Annalisa strappò un foglio dalla sua agendina ed iniziò a scrivere un breve messaggio: «Caro Papà. Lo so che c’è qualcosa di profondo che ci divide, ma io ti voglio un mondo di bene lo stesso. Non è possibile che ogni volta che perde la Lazio facciamo queste scene e tu mi lasci fuori casa. Sai come trovarmi. Annalisa. P.S. E poi non è colpa mia se tra tutte le case hai scelto di vivere all’interno 11B. Kiss.».
Con un lungo sospiro Annalisa infilò il foglietto sotto la porta e compose nuovamente il numero di Francesca: «Franci, sono io. Non è che potresti ospitarmi a casa tua stanotte? Poi con calma ti spiego».
La risata dell’amica all’altro capo del telefono la rasserenò e Annalisa riprese le scale canticchiando «Lotito vi manda in B» sulle note del jingle di Braccio di Ferro.
Chi doveva sentire, ne era certa, avrebbe sentito…

Butta la chiave, butta la chiave, non mi punire, posso spiegare…
Fatti pregare, lasciami entrare, fammi salire, fammi scaldare…

(*) Dedicato a Viperella e a tutti quelli che almeno una volta nella vita sono stati lasciati fuori casa per colpa della loro passione per la Roma.