venerdì, Maggio 17, 2024 Anno XXI


Matteo si sarebbe potuto definire un bambino tranquillo. Un piccolo ometto di cinque anni, ordinato e composto come ormai raramente si vedeva tra i bambini della sua età, sin troppo inclini all’urlo immotivato. Matteo no, lui preferiva perdersi appresso ai suoi piccoli sogni e, a lasciarlo stare, era capace di passare ore ed ore a giocare con le sue macchinine: un’Alfa rossa, una volante della Polizia e la sua preferita, una piccola ‘500 bianca nuova serie, la stessa auto della mamma.
Così quel sabato assolato, mentre sua sorella aveva atteso solo un cenno della mamma per uscire fuori in giardino a giocare con gli altri bambini, lui era rimasto seduto ad un capo della lunga tavolata appena sparecchiata, aveva recuperato le sue macchinine ed aveva cominciato la serie infinita degli slalom silenziosi, degli scontri incruenti e degli inseguimenti mozzafiato in mezzo metro quadrato.
Poco distante da lui, papà Marco e «zio» Paolo parlavano tra loro intervallando ricordi e risate, quasi indifferenti alla presenza di Matteo.
Matteo non era tipo da interessarsi ai discorsi «dei grandi», ma quella volta la sua attenzione fu attirata dai racconti concitati di Paolo il quale, come spesso faceva, si era messo a narrare delle sue avventurose trasferte al seguito della Roma, iniziate più o meno alla stessa età di Matteo.
Il motivo di tanto interesse di Matteo era rappresentato dal fatto che l’involontaria protagonista di quelle trasferte fosse un’automobile, una di quelle che però Matteo non conosceva: una misteriosa Simca 1000, l’auto dei genitori di «zio» Paolo, che nei racconti di Paolo diventava una sorta di automobile magica, capace di instancabili viaggi di ore su e giù per l’Italia.
Come spesso accade ai bambini, Matteo una volta catturato dal racconto, mollò quello che stava facendo e, lasciate le macchinine, si mise ad ascoltare con estrema attenzione.
Un po’ per l’abilità del narratore nel descrivere cose accadute decine di anni prima con la stessa freschezza della cronaca appena vissuta, un po’ per l’inclinazione di Matteo a vivere tutto il chiave epica, i racconti si trasformarono presto nella mente di Matteo in scenari fantastici e lui ne fu letteralmente rapito.
Nella sua piccola mente si dipinsero scene d’altri tempi con il pallone lanciato da prodi guerrieri, parabole destinate a finire nel sacco, o preda sicura di enormi portieri.
Ovunque Matteo vedeva lo sventolare di bandiere come nei tornei medievali e sentiva le grida, gli incitamenti e gli ululati di scontento come se tutto si svolgesse letteralmente sotto ai suoi occhi.
E al centro dei ricordi di «zio» Paolo c’era lei, la Roma, ora sconfitta, ora trionfatrice, ma sempre trattata con affettuosa delicatezza, come una persona cara.
Di questo Matteo non si stupì affatto, perché in fondo era lo stesso sentimento di suo papà il quale, però, e Matteo dovette ammetterlo a malincuore nonostante l’adorazione che nutriva per il padre, non era mai riuscito a trasmettergli lo stesso sacro furore che ora lui sentiva nell’interminabile racconto.
Padre e figlio restarono così in silenzio, ognuno a suo modo perso, anche se con sentimenti assai diversi. Se per Marco, infatti, quei racconti rappresentavano il recupero nella sua memoria di ricordi ormai sbiaditi, per Matteo, invece, significarono l’accesso ad un Mondo a lui completamente sconosciuto.
Matteo in quel momento fu educato al romanismo, quello autentico che si trasmette da generazioni, e forse se ne rese conto o forse no.
Da parte sua, «zio» Paolo, che aveva iniziato a raccontare solo per il gusto di farlo, pian piano si rese conto, più di Marco che aveva il figlio dietro le spalle, dell’attenzione del piccolo, e incoraggiato dai piccoli occhi fiammeggianti che non gli si staccavano di dosso, si sforzò di aggiungere ancora più particolari alle sue storie fin quando i tre furono interrotti dal richiamo che proveniva dal giardino dell’imminente arrivo della torta portata apposta per festeggiare il compleanno di Cristina, la sorella di Matteo.
Matteo scese dalla sedia senza fretta e diresse al padre uno sguardo carico di attesa e di significato.
Marco intuì al volo il senso di quella richiesta e lo rassicurò che sì, presto lo avrebbe portato a vedere la Roma allo Stadio.
Matteo, che solitamente non era tipo da chiedere giocattoli, si rivolse al padre dicendogli: «si papà, però prima di andare allo Stadio mi devi comprare una macchinina nuova. Voglio una Simca 1000». E quando il padre gli chiese come mai, tra tutte le macchinine, volesse proprio quella, la risposta di Matteo fu pronta: «perché così quando sarò grande mi ricorderò tutto, come zio Paolo».

Ti ricordi la domenica mi portavi con te allo stadio
quella volta che m’hai preso in braccio con la curva sotto assedio
la gente che scappava, sembrava una guerriglia
io sembravo un’ostrichetta e tu la mia grande conchiglia…
E quando arrivava l’estate andavamo sempre al mare
con la macchina senza radio, pensavamo noi a cantare
le canzoni di Bennato, Battisti e De Gregori
eravamo sull’asfalto, ma sembrava in mezzo ai fiori

(*) Ci sono racconti che non hanno bisogno di dediche, perché sono essi stessi una dedica. Questo è uno di quelli. E allora la dedica si trasforma in ringraziamento. Grazie Paolo «Fila60» che con i tuoi racconti, tra «Vintage» e «Bordini & Stocchetti», ogni volta ci rieduchi al romanismo, facendoci tornare tutti bambini con gli occhi spalancati e la bocca aperta in attesa di conoscere come andrà a finire la storia infinita del nostro grande amore per i colori porpora e oro.