domenica, Maggio 04, 2025 Anno XXI


Tra le tante email che riceviamo, il più delle volte per segnalare foto, video o articoli, ci ha colpito una in particolare che, nella sua schietta semplicità, ci chiedeva delucidazioni su un aspetto caratteristico del mondo ultras: la violenza.
Come altre volte, per permettere alla discussione di uscire dalle quattro mura virtuali, ci prendiamo il rischio di una risposta pubblica con la solita disponibilità a offrire spazio a quanti volessero intervenire, rettificare, aggiungere.

Un giovane lettore, con candida umiltà ammette di saperne ancora poco del mondo ultras e per volersene ulteriormente addentrare, testualmente domanda:

Mi è sembrato di capire che nella mentalità ultras ci sia una vera e propria cultura dello scontro fisico, anche senza motivo. Cosa spinge alcune persone a picchiarsi, col chiaro rischio di farsi molto male, anche senza una ragione precisa?

Premesso che il discorso è talmente vasto che è difficile farlo senza il rischio di perdersi in una delle sue mille pieghe storiche e sociologiche, e che d’altronde non approfondire tanti di questi aspetti comporterebbe il rischio di una visione parziale (e spesso falsata) del fenomeno. Bisogna poi specificare che ogni singola analisi, come quella che mi accingo a fare, non è immune da vizi di forma dovuti alle opinioni personali, alla prospettiva che soggettivamente ognuno ha rispetto a ciò di cui parla.

La violenza, tanto per cominciare – è questa non è un’opinione ma un dato – non è “senza motivo”: per ricondurla alla mera fisica, ogni reazione è sempre il frutto di un’azione scatenante. “Una volta non c’era tutta questa violenza” sentenziano i tromboni, ma dei famosi versi dello storico latino Tacito nei suoi “Annales” (XIV, 17) riportano di scontri tra “tifosi” già nel lontano 59 d.C. Durante uno spettacolo di gladiatori in quel di Pompei, durissimi scontri si verificarono tra cittadini della locale colonia e quelli sopraggiunti da Nocera. Dagli sfottò si passò ai sassi e dai sassi alle spade. Morirono parecchie persone, ebbero la peggio i nocerini che erano in inferiorità numerica. L’inchiesta sui gravi accadimenti fu assegnata al Senato, il Senato delegò ai Consoli, poi tornò nuovamente al Senato che decretò 10 anni di divieto per i “tifosi” pompeiani di assistere ed organizzare tali disfide.
Dall’antichità deriva non solo la violenza, ma anche il rimpallarsi delle responsabilità dei politici e le solite facili soluzioni che poi, in buona sostanza, non risolvevano nulla, come nulla hanno risolto poi il moderno Daspo, il divieto di trasferta o la tessera del tifoso. Il sottile filorosso che lega queste vicende all’attualità è evidente: a bocciare la repressione è la storia, ma cerchiamo di non perderci.

Il primo motivo che si può facilmente intuire già da Tacito è di carattere campanilistico-territoriale: con l’ascesa del calcio a sport nazional-popolare, la contesa si è ovviamente spostata dalle arene dei gladiatori agli stadi, così il cittadino della squadra locale – proprio come i pompeani – giudica invadente la presenza di “ospiti” e dimostra loro un’ostilità che può essere simbolica, con cori quanto più potenti possibili, atti a sovrastarli, ma può anche degenerare in violenza propriamente detta.

Antropologicamente il calcio simula i rituali della guerra, in cui due eserciti si danno battaglia per conquistare il campo nemico: se ciò da un lato sublima la violenza in momento ludico, ha pur sempre il rischio intrinseco opposto che la “guerra simulata” diventi reale laddove si verifichino particolari eventi come la vittoria inattesa del nemico, l’eccessivo agonismo del campo e tutta una serie infinita di fattori definibili “ambientali” che, riverberandosi sul tifo, finiscono per ricaricarlo proprio di tutto quel potenziale che intendono evirare.

Si potrebbe e si dovrebbe aprire una parentesi non indifferente sulla psicologia di massa, su come determinati fenomeni agiscano sul soggetto multiplo che è la folla, ma anche qui servirebbe un libro a parte (e di libri, invero, ce ne sono parecchi). L’unica piccola citazione specifica la merita “Il derby del bambino morto” di Valerio Marchi (Editore Derive Approdi, 2005), che con lucidità sottolinea quanto forte e diversa può essere la reazione collettiva di fronte a agenti esterni destabilizzanti. Inutile dire che la chiave di lettura “ultras, padroni del calcio” è quantomeno farlocca in questo caso, e che dietro ci sono pesantissime responsabilità nella gestione scellerata dell’ordine pubblico, che qualcuno ha voluto poi scrollarsi di dosso con ipocrisia facilona.

Non di meno le stesse forze dell’ordine possono essere non solo concausa, ma spesso causa prima della violenza, che potrebbero prevenire con un po’ di buonsenso anziché aizzarla, ma non è di questo che stiamo parlando, per cui torniamo al centro del discorso.

La violenza calcistica, dunque, ha una genesi per lo più campanilistica e territoriale: nei primi anni del calcio era difficile, se non impossibile vedere tifoserie ospiti al seguito delle squadre in trasferta, per cui l’ordine (e il disordine) pubblico era tutto indirizzato/causato (d)agli atleti avversari e (d)all’arbitro: famoso l’episodio del 1970 dei tifosi del Toro, che inseguirono l’arbitro Concetto Lo Bello fino all’aeroporto, per un rigore concesso negli ultimi minuti e che diede la vittoria agli ospiti del Vicenza. La minore presenza di ospiti non era dunque sufficiente a evitare la violenza, contrariamente a quel che pensa l’Osservatorio e l’apparato pro-tessera del tifoso che fa di tutto per limitarle.

È possibile trovare episodi di violenza anche in tempi non sospetti, allorquando il mondo ultras non era nemmeno in fase embrionale, come gli scontri nello spareggio scudetto Bologna-Genoa del 1924-25 sul neutro di Torino, in cui due genoani furono feriti da colpi d’arma da fuoco. Era l’anno che i genoani definirono della “stella scippata” (sarebbe stato il decimo scudetto per i grifoni, quindi quello della stella) e in cui il Bologna vinse il suo primo tricolore, dopo una serie infinita di spareggi (ben 5), polemiche e accuse, su tutte quelle al gerarca fascista Leandro Arpinati che avrebbe usato ogni mezzo, lecito ed illecito, pur di far vincere il Bologna per cui tifava. La stessa vicenda degli scontri fu avvolta da una cappa di silenzio proprio dal governo fascista, più interessato a preservare un clima di “ordine e disciplina”. Questo fino a quando anche i Poteri di turno non realizzarono che gli eventi violenti potevano essere un ottimo strumento di propaganda, o meglio ancora di controllo sociale, grazie ad una stampa connivente che dipingendo gli autori degli scontri come “folk devils”, per usare un termine di Stanley Cohen (Folks Devils and moral panic, 1972), contribuiva a diffondere “panico morale”, instabilità sociale e psicologica nella massa che così era molto più facilmente asservibile. Per fare un esempio molto, molto semplice, è come quando i genitori ricorrono allo spauracchio dell’Uomo Nero per impaurire i figli particolarmente vivaci ed indurli all’obbedienza.

Anche questo però non è il fulcro del discorso, per cui torniamo alla violenza ultras: data la lunga digressione, è facilmente intuibile come – almeno nei primi anni del movimento – la violenza fosse un puro fatto territoriale, uno tra i tanti confronti tra bande contrapposte che caratterizzavano quegli anni turbolenti. Erano anni in cui per le strade si fronteggiavano Mods, Rocker, Punk, Skin ed una galassia infinita di sottoculture diverse, che però non agitavano certo le notti insonni dei signori in doppiopetto come le varie componenti della sinistra e della destra extraparlamentare che vivevano il culmine della propria vitalità, giunta fino all’estremo della lotta armata.

Mentre la stagione della politica andava affievolendosi, inversamente e vertiginosamente proporzionale era la crescita del movimento ultras, che mutuava parecchi aspetti dalla lotta politica: nomi, organizzazione paramilitare, codici d’abbigliamento, persino le stesse idee politiche; non a caso in quegli anni era molto più netta la politicizzazione delle tifoserie, checché ne dicano i reportage ridicoli che ad ondate regolari ci propinano dai maggiori quotidiani nazionali.

Pian piano poi i gruppi ultras sono andati evolvendosi in direzione autonoma, sviluppando caratteristiche del tutto differenti e singolari in cui la violenza era sì un modo di misurare le forze con il proprio avversario, forse anche uno dei principali, ma di sicuro non il solo: non meno importanti erano le sfide che si giocavano sul campo dell’inventiva, delle coreografie, del colore, dell’originalità e della potenza dei cori, così come la capacità di muovere numeri più alti dei rivali quando c’era da andare in trasferta. Bisognava annichilire l’avversario, ed in “guerra” (seppur simbolica, lo ripetiamo, a scanso di passare per apologeti) come in amore ogni mezzo è lecito, anche il più brutale: non meno feroce era la violenza verbale, c’era poco rispetto dei morti o del politicamente corretto, si sputava senza riserbo su Superga come successivamente sui morti dell’esondazione dell’Arno o quelli di qualche anno dopo dell’Heysel, si portavano allo stadio macabre casse da morto con i colori dei rivali, croci funebri, si levavano al cielo le tre dita che minacciavano l’uso delle pistole P38, si sfoggiavano caschi, mazze, catene. Tutto ovviamente senza l’eccesiva enfasi dell’opinione pubblica che aveva ben altri grattacapi.

In un tale scenario, chiaro che la contrapposizione fisica si sviluppava in maniera altrettanto violenta però, paradossalmente, considerati i numeri che il calcio muoveva, considerato l’approccio selvaggio e senza regole dello scontro fisico, il ricorso alle armi improprie derivanti dalla lotta politica o dalla semplice e dura vita di strada, il numero dei morti era quasi nullo. Il primo morto da stadio è il salernitano Giuseppe Plaitano durante Salernitana-Potenza che valeva la promozione in B: a cagionarne il decesso, toh!, un proiettile sparato dalla polizia. Partendo dal triestino Stefano Furlan, passando per l’atalantino Celestino Colombi, fino ad arrivare a Gabriele Sandri, c’è sempre di mezzo qualche poliziotto poco ortodosso; occhio a fare del negazionismo, perché è chiaro che le cause della recrudescenza della violenza sono anche interne al movimento ultras stesso, ma il succo è proprio questo: “anche” ma non “solo”.

Orfana della piazza svuotata di antagonismo, la polizia è stata spostata in blocco allo stadio per dare un motivo alla sua stessa esistenza, con lo stadio diventato laboratorio sperimentale di nuove tecniche repressive dei fenomeni di massa: i lacrimogeni, i manganelli, gli scudi, le tattiche da guerriglia urbana.

L’inserimento del terzo elemento costituito dalla polizia, ha finito per far salire ulteriormente il livello della tensione, dello scontro e dell’organizzazione dello scontro stesso per eludere i controlli. La violenza è diventata così un po’ meno rituale e un po’ più reale, crescendo con il passare del tempo e con l’approccio stupido del legislatore, capace di governare solo “di pancia” e giammai con il cervello.

Quello che da più parti è ritenuto come l’anno zero della violenza ultras, è il 1995, quando muore il genoano Vincenzo Spagnolo per un colpo di lama del tifoso milanista Simone Barbaglia. Ne erano morti altri prima di quel Genoa-Milan e in dinamiche non meno discutibili, come Antonio De Falchi, Nazzareno Filippini, Marco Fonghessi, però quello fu il momento in cui gli ultras decisero di mettere al bando ogni tacita tolleranza alle armi e agli scontri senza regole. In un raduno a margine della morte di “Spagna”, diverse tifoserie firmarono una sorta di manifesto dal titolo “Basta lame, basta infami” con cui si impegnavano ad una maggiore etica nelle regole di ingaggio, al rispetto di una sorta di codice cavalleresco secondo il quale non sarebbero più dovute avvenire aggressioni con armi bianche. Dalla teoria alla pratica poi c’è sempre una distanza notevole, e ancora oggi l’uso delle lame è consuetudine in realtà metropolitane socialmente complicate. Di contro, chi non ha accettato quel manifesto ideologico, denuncia l’ipocrisia di quanti non usano armi ma attaccano in superiorità numerica, a sassate, sprangate o altri modi che potrebbero risultare non meno letali di una lamata.

Senza addentrarci in interminabili sofismi del variegatissimo modo di pensare degli ultras, è indubbio però che dal dopo 1995 lo scontro è diventato sempre meno spontaneo, coinvolge sempre minori numeri ma ha avuto anche una reale “moralizzazione”. Lo scontro casuale e territoriale tipico del movimento ultras italiano è andato avvicinandosi sempre più a quello nord europeo, in cui gruppi di tifosi in numero pari si danno appuntamento, lontano dallo stadio e da occhi indiscreti, affrontandosi a mani rigorosamente nude: chi è a terra inerme, è fuorigioco, e non si può e non si deve infierire; a vincere è chi rimane in piedi. Ovvio che rimangono fenomeni ancora molto distanti dal nord Europa, ovvio che c’è ancora chi cerca le vecchie sedi e i vecchi modi di azione, però è altrettanto vero che la repressione è diventata così stringente, le pene così severe (anche se assurdamente i giornalisti descrivono un’impunità che di fatto non c’è), le telecamere così onnipresenti, la tecnologia di controllo sociale così invasiva, che i margini inevitabilmente si restringono ai succitati.

Senza sconfinare in quelle che sono opinioni soggettive sull’evoluzione degli scontri, tornando al nocciolo della domanda, è più che chiaro che la violenza del mondo ultras non è affatto “senza motivi”: oltre a quelli ampiamente sviscerati, cercando di farne capire anche gli antefatti e gli sviluppi, la violenza può avere radici storiche come quella tra la Siena ghibellina e la Firenze guelfa; sociali come quella che contrappone Napoli e Verona o Sud e Nord in genere; antropologiche perché innati sono secondo alcuni studiosi gli istinti all’“aggro” (aggressività) dell’uomo; politiche come quella tra livornesi sinistrorsi e laziali destrorsi e tante, tante altre concause ancora.

Della violenza si può dire tutto, ma non che non abbia motivi, insomma. Della violenza si può trattare in mille modi, ma non con l’ipocrisia dei cavalieri senza macchia che poi si picchiano in Parlamento. La violenza, qualche tempo fa, era solo uno dei tanti aspetti che caratterizzavano il modo di vivere lo stadio, un aspetto che in base alle varie realtà poteva essere più, meno o ugualmente importante dell’aggregazione, del tifo vocale, della sfida coreografica, della trasferta, del colore che torce e fumogeni garantivano, dell’identità racchiusa negli striscioni, da tutti quegli aspetti che l’assurda criminalizzazione dello Stato ha messo al bando. Se la violenza era uno dei tanti modi possibili per confrontarsi, giusto o sbagliato che fosse, adesso è l’unico modo possibile che è rimasto agli ultras per misurarsi: gli intelligentoni che volevano risolvere il problema, si stanno praticamente scavando la fossa da soli. Ma questo è un altro discorso, esattamente come quello della violenza è un discorso infinito su cui potremmo spendere ancora parole su parole senza aver detto davvero tutto. Piantiamo qui la nostra asticella, nella speranza di aver dato un piccolo contributo.

Sport People.

Per Corederoma
Paolo Nasuto