sabato, Luglio 05, 2025 Anno XXI


Il sonetto che ho scritto dopo Roma-Juventus potrebbe ingenerare, me ne rendo perfettamente conto, qualche equivoco. Si parla di pallone, del calcio che è, secondo una delle più felici definizioni di Arrigo Sacchi, “la cosa più importante fra le cose inutili”. Lo stadio, poi, è quasi una zona franca, dove sono ammessi, anzi di rito, comportamenti che forse in un altro luogo non ci sogneremmo neanche di assumere. In quale altra circostanza staremmo ad esempio appesi al vetro di una balconata, con le braccia penzolanti a mo’ di gibboni in gabbia, a smadonnare e urlare davanti ad uno spettacolo (sic…!) che a malapena intravvediamo? In quale altra circostanza ci metteremmo a cantare con altre decine di migliaia di persone cori a volte stonati a poco comprensibili? In quale altra circostanza ci abbracceremmo urlando, spingendoci reciprocamente, dandoci pacche delle quali poi a casa troviamo i lividi, in quale altra contingenza staremmo lì a piangere come vitelli nonostante l’età vetusta solo perchè non si è centrato il sogno di vincere una partita decisiva per lo scudetto, una qualificazione sfumata ai calci di rigore?
Scrivo questo perchè quel sonetto contiene parole come “Odio”, come “perdente”, “inetto”, che in un contesto diverso dal calcio è ovvio io peserei molto di più e delle quali non faccio volentieri uso, in special modo per la parola “odio” che ritengo quasi estranea al mio vocabolario.
Ma parlando di pallone, tutto sommato, garbatamente e con la musicalità della lingua romana, diviene tutto più leggero e senza colpe. E’ chiaro, no?