martedì, Giugno 24, 2025 Anno XXI


L’uomo lasciò la macchina dietro Piazza Gentile da Fabriano e, con passo misurato, s’incamminò verso ponte Duca d’Aosta.
Nella sua mano, calda nonostante i rigori del pomeriggio invernale, stringeva quella di Michele, sei anni, suo figlio.
Il bambino lo seguiva senza particolare entusiasmo, ma senza fare resistenza.
Alle orecchie, seminascoste da un ciuffo di capelli castano chiaro, teneva le cuffiette del suo I-Pod, a volume troppo alto, diceva la mamma.
Attraversato il lungotevere, insolitamente poco trafficato nonostante fossero le 13 di una domenica di pallone, l’uomo si diresse lungo il ponte facendo attenzione ai gradini ed a scansare le bancarelle e i venditori che, annoiati e poco convinti, gli offrivano sciarpe e bandiere della Roma, ovviamente taroccate.
Il piccolo guardava le bancarelle senza particolare interesse.
Lui aveva già tutto, e rigorosamente originale.
La maglia, la 10 di Totti, a maniche corte, indossata sopra la sua felpa preferita.
Il giaccone della Robe di Kappa e sulle spalle lo zainetto con la lupa.
Al collo portava ben annodata una sciarpa alla quale papà teneva tanto, a strisce porpora e ocra, sulla quale campeggiava un semplice ricamo in oro: una corona d’alloro sormontata dalla scritta SPQR. Al centro del ricamo, ricamate anch’esse, le scritte COREDEROMA poste in semiciclo sopra la sigla CR sovrapposta in ocra e oro.
L’uomo era insolitamente silenzioso e silenzioso era il ponte semideserto.
Attraversato nuovamente il lungotevere si avvicinarono all’obelisco e passarono, biglietti e documenti alla mano, i primi frangi folla tra lo sguardo distratto degli steward. Un drappello di agenti della Polizia di Stato, in tenuta antisommossa, chiacchierava in disparte, qualcuno, data l’ora, mangiava frettolosamente un panino.
Più poliziotti che tifosi, pensò l’uomo.
Da lontano s’intravedeva la corona della copertura dell’Olimpico e, in basso, la “palla”.
Un brutto monumento marmoreo posto al centro della rotonda antistante lo Stadio che a lui ricordava i mille appuntamenti di domeniche senza televisione e senza telefonino.
Se vedemo alla palla. L’orario, manco a dirlo, era quello solito.
Istintivamente l’uomo si diresse verso gli ingressi della Curva Sud, sorpassando i botteghini chiusi, poi, sorridendo a se stesso, si fermò ricordandosi di avere con sé Michele e cambiò direzione verso la Tribuna Tevere Centrale.
Il bambino non sembrava particolarmente incuriosito dall’ambiente circostante, nonostante fosse la prima volta che andava allo Stadio. Di tanto in tanto alzava lo sguardo verso il padre, che amava moltissimo, sorprendendo sul volto paterno, solitamente così calmo, un’espressione febbrile. Se ne avesse saputo il significato, l’avrebbe definita un’eccitazione infantile.
L’uomo consultò il biglietto e si diresse con passo sicuro, tra i pochi tifosi presenti, verso l’ingresso assegnato. Entrò per primo nel tornello e si pentì di averlo fatto d’istinto, timoroso che qualcuno potesse schiacciare Michele alle sue spalle. Ma erano soli e tutto andò liscio. La solita perquisizione col metal detector lo innervosì e di più lo innervosì quella di Michele e del suo misterioso zainetto. Michele, invece, restava straordinariamente calmo più che altro attratto dalla complessa divisa dei poliziotti e dal loro armamentario.
Anche questa è fatta, pensò l’uomo, e invece di dirigersi verso la parte superiore della tribuna dove avevano preso i posti, entrò dal parterre.
Voleva abbracciare con un unico sguardo lo Stadio e far provare anche a Michele questa sensazione unica.
La delusione che provò entrando fu enorme.
Lo Stadio era semideserto e anche nella Curva Sud si vedevano larghi vuoti, oltre all’ignobile “riga in mezzo”, quella scala gialla di separazione voluta dal Prefetto.
Il silenzio lo colpì più di ogni altra cosa.
Anzi, pensò, non è neppure silenzio, quello che incute rispetto o timore.
Era il cicaleccio della gente in attesa, come quando si fa la fila alla posta.
Avvampò in un misto di rabbia e di malinconia e si diresse con Michele verso il bar alle loro spalle a comprare, come promesso, la coca e i popcorn.
Poi presero entrambi le scale e raggiunsero i loro seggiolini orientandosi a fatica nel dedalo delle nuove sigle.
Michele, dato uno sguardo distratto al prato verde, gli chiese che ora fosse e quando avrebbe visto Totti.
Rassicurato dal padre, che gli comunicò che mancava ancora un’ora abbondante, prese dallo zainetto la Psp, caricò Bee Movie, il gioco che la mamma gli aveva regalato per la befana, e si astrasse da tutto il resto.
L’uomo inizio a parlare a bassa voce.
Non era certo di parlare a se stesso o al figlio concentrato sul videogioco, ma parlò.
Con un ampio gesto del braccio cominciò ad indicare i diversi settori dello Stadio.
La prima volta che sono entrato all’Olimpico non ricordo neppure che partita fosse.
Ricordo la luce, accecante, di una mattinata primaverile e il riflesso abbacinante dei marmi dell’Olimpico.
Ricordo la gente sulla collina sopra lo Stadio arrampicata per vedere la partita senza pagare il biglietto.
Ricordo la folla che mi spingeva da tutte le parti e mi impediva la vista e mio padre che saliva con passo solenne sui gradini salutato da tutti come fosse il papa.
Ricordo il rumore, assordante, dei tamburi della Curva Sud e quei bandieroni enormi a scacchi gialli e rossi che riempivano lo sguardo.
Un rumore che iniziava dalla mattina, quando aprivano i cancelli, e non aveva mai fine, trascinandoti in un mondo magico fatto di ardore e di passione.
Ricordo i cori, inesauribili, interminabili, e quei pazzi che li guidavano urlando dentro un megafono.
E uno Stadio intero che rispondeva a quei cori, sovrapponendo le voci di migliaia di persone in un ruggito inconfondibile, il ruggito dell’Olimpico.
Ricordo i vecchi tabelloni che tra il primo e il secondo tempo davano i risultati, anticipati dai boati di gioia e di disapprovazione perché c’era sempre qualcuno con la radiolina attaccata all’orecchio e sintonizzata su Tutto il calcio minuto per minuto.
Ricordo che mio padre mi esibiva come un trofeo ai suoi amici. “Meio frocio che laziale” diceva vantandosi e io, che non sapevo cosa volesse dire, arrossivo e abbassavo lo sguardo e il capo sommerso dagli scappellotti di mani enormi e ruvide.
Michele distolse lo sguardo dalla Psp, tolse le cuffiette e iniziò ad ascoltare il padre che parlava, fissandolo in volto.
Leggeva sul quel volto un’estasi rapita. Avrebbe voluto dire che anche lui provava, ora, le stesse cose, ma la mamma diceva che non bisognava raccontare bugie, neppure a fin di bene.
Intorno a lui, col passare di minuti, lo Stadio si riempiva, ma non certo tantissimo e i cori iniziati dalla Sud duravano pochi istanti per spegnersi nell’indifferenza. Un boato accolse la squadra nel riscaldamento, ma si spense quasi subito. Strano, pensò, il bambino, credevo che inneggiassero alla squadra, che chiamassero a gran voce Totti o Aquilani, e invece i cori iniziano tutti con “odio…”.
Lo sguardo dell’uomo era velato e per non farsi sorprendere dal figlio lo nascose nel bavero del giaccone e affondò il viso nella sua sciarpa, ancora quella dell’82.
Fu il figlio allora, a parlare.
Quando sarò grande, disse Michele con espressione seria, voglio andare in Curva Sud.
E cantare tutto il tempo. Ce la posso fare, mamma dice che per la mia età c’ho già un vocione…
E stare tra i miei amici in piedi e applaudire e battere le mani ritmando il coro e fare casino e urlare perché sono romanista, figlio di romanista e nipote di romanista.
E lo Stadio sarà sempre pieno di gente in festa perché gioca la Roma e la Roma, come mi ripete il nonno, è come una bella signora e non va mai lasciata sola.
E non mi importa se non mi faranno entrare col tamburo, perché la nostra voce sarà più forte di ogni tamburo.
E sosterrò la squadra sempre, pure quando si perde, e se un nostro giocatore sbaglierà non lo fischierò perché è della Roma.
E ad ogni gol mi abbraccerò coi miei vicini e mi alzerò in piedi e ballerò il samba in onore della Roma brasileira.
E quando un giocatore segnerà una rete verrà a festeggiare sotto di noi e noi gli risponderemo con i nostri cori che non finiranno mai.
Quando sarò grande non avrò bisogno di odiare nessuno, perché i nostri cori spaventeranno gli avversari che resteranno in silenzio e non avranno la forza di reagire.
Ora era l’uomo a guardare rapito il figlio e guardandolo si commosse fino alle lacrime che iniziarono a rigargli il volto. In un impeto lo soffocò in un abbraccio tra la meraviglia dei vicini intenti a leggere il giornale. Uno di loro, infastidito, cambiò posto.
Un altro, un distinto signore che sino a quel momento era rimasto in silenzio, ripose gli occhiali da presbite nel taschino e, d’improvviso, abbracciò padre e figlio, che neppure conosceva.

Memory
All alone in the moonlight
I can smile happy your days
I can dream of the old days
Life was beautiful then
I remember the time I knew what happiness was
Let the memory live again

Marforio

(*) Dedicata al Secco e al suo bellissimo bimbo