venerdì, Aprile 19, 2024 Anno XXI


Agostino Di BartolomeiCosa si potrebbe ancora raccontare di Agostino Di Bartolomei. E’ stato uno dei più grandi giocatori che abbiano indossato la maglia giallorossa. Il Capitano vero, quello del secondo scudetto, la cui immagine, di plastica potenza, con la quale scaglia il pallone nella rete avversaria campeggia da anni sul logo di questa nostra Associazione. E alberga nei cuori di quanti lo hanno visto giocare. Il simbolo romano e romanista di una Roma senza limiti, che ci portò sul tetto d’Italia e anche ad un passettino dal tetto d’Europa. Agostino Di Bartolomei ha giocato per 308 volte con la maglia giallorossa, ha segnato 68 gol, ha vinto lo scudetto nell’83 e la coppa Italia nell’80, nell’81 e nell’84. La sua ultima foto, con la maglia giallorossa scudettata, lo ritrae appunto con la coppa nazionale in mano e con le lacrime agli occhi per la consapevolezza di dover andare via. Quando, il 30 maggio del 1994, il male di vivere lo convinse a lasciare questo mondo (cosa per la quale sono ancora arrabbiato e che non sono mai riuscito a perdonargli, povero amico mio), aveva con sé la sua disperazione ed una cartolina che ritraeva lo stadio Olimpico e una dedica del Cucs: “Ti hanno tolto la tua Roma, non la tua curva!”.
Ma questa è una storia in prima persona, un racconto di quando Agostino ed io, che giocavamo a pallone, siamo diventati “giocatori di calcio come quelli veri!”.
Siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, il campo Nistri a Tormarancio è il centro dell’universo, per noi due come per tanti altri. Lì rimbalza un pallone e dove rimbalza un pallone noi ci siamo. L’Omi, la società proprietaria del campo che milita stabilmente in Promozione, ai limiti del calcio professionistico, crea il suo Nagc (Nucleo addestramento giovani calciatori). Quando inizia l’attività, ai primi di settembre, l’iscrizione è aperta a tutti: basta pagare 500 lire per la visita medica e l’assicurazione, dotarsi di una “argentina” (oggi le chiamano felpe) blu, un paio di calzoncini neri e un paio di “scarpette di gomma dura” e si va ad imparare a giocare a calcio. Trillò e Camiglieri sono i due istruttori preposti. Poi, prima delle feste di Natale, c’è un vero e proprio esame: si palleggia, si fa lo slalom fra i paletti, si fanno gli esercizi alla forca (una sorta di T dalla quale pendono due palloni), si viene interrogati sulle regole e la storia del gioco del calcio.Agostino Di Bartolomei Quella è più o meno la selezione che serve per essere ammessi alla preagonistica. Si aspetta con trepidazione la classifica degli esami e con angoscia la lettera che ti comunica che devi presentarti il 7 gennaio al campo, e questa volta con gli scarpini di cuoio da calciatore. Io ed Agostino siamo nel gruppo dei prescelti, ma lui è una sorta di predestinato: la nostra squadra è formata dai nati nel secondo semestre ’53 e primo ’54. Lui, primo semestre ’55, viene aggregato con compagni che in qualche caso hanno quasi due anni di più. Agostino voleva giocare terzino destro, come Burgnich, ma Trillò lo vede a centrocampo. Allora, anche i Pulcini giocavano a 11, i centrocampisti in campo di solito sono quattro: il mediano destro, il mediano sinistro e le due mezze ali. E, quando il mister dice ad Agostino che gli affiderà il ruolo di mediano destro, io tiro un grosso sospiro di sollievo: il posto di mezz’ala sinistra è salvo!
Cominciamo a giocare le prime partite, il lunedì pomeriggio, e ci scopriamo una squadra imbattibile. I nostri avversari si chiamano Vis Nova, Almas, Romulea, Ostiense, ma noi li battiamo tutti e Agostino, il più piccolo di tutti, è anche il più bravo. Ma non il più bravo di poco: lui ruba l’occhio, la gente sugli spalti si spella le mani ad applaudirlo, gli avversari non ci credono neanche quando vengono a sapere che quel fustino di ragazzino e un primo ’55 che gioca coi secondo ’53.
Poco prima delle vacanze di Pasqua, poi, ci comunicano che andremo a giocare in trasferta, cioè fuori Roma: a Canino. Canino ci sembra la luna anche se dista un centinaio di chilometri. Ma l’eccitazione è al massimo, perché resteremo lì per tre giorni, dormiremo in albergo prima di andare a giocare le tre partite in programma. Quando partiamo ci danno a tutti una tuta con l’argentina blu e i calzoni con l’elastico a stringere le caviglie. E sul petto, meraviglia delle meraviglie, una vistosa scritta: OMI. Saliamo sul pullman che ci porterà a destinazione, Trillò ci assegna i posti: io sono vicino a Gianni Neri, Agostino siede vicino a Claudio Mancori. Poi si gira verso di me e mi dice: “La tuta, il pullman, dormiamo in albergo: proprio come quelli veri. Ora lo possiamo dire che siamo giocatori di calcio!”.
Vincemmo anche quel torneo, furono tre giorni incredibili, ci atteggiavamo a calciatori, giocavamo a carte e a boccette in attesa delle partite, mangiavamo tutti assieme, poi via allo stadio di Canino, la partita e poi di nuovo in albergo. Aveva ragione Agostino, “proprio come i giocatori veri”. Lui lo rimase per tanti anni e per me fu sempre una sorta di visione: uno di noi, di quelli che stavano sempre al campo Nistri perché lì rimbalzava il pallone, di quelli che erano diventati veri giocatori di calcio andando a giocare in trasferta a Canino da ragazzini. Ma che ce l’aveva fatta a coronare il sogno di indossare la maglia della Roma.